2009-09-21 17:07:17

Progressi e difficoltà della Chiesa d'Eritrea dinanzi agli obiettivi del secondo Sinodo per l'Africa


Tra pochi giorni, si aprirà in Vaticano il Sinodo dei Vescovi per l’Africa. Dal 4 al 25 ottobre, dunque, i presuli rifletteranno sui temi della riconciliazione, della giustizia e della pace. Si tratta della seconda Assemblea Speciale dedicata al continente africano, dopo quella del 1994. Isabella Piro ha intervistato, in proposito, Mons. Menghesteab Tesfamariam, Vescovo di Asmara, in Eritrea. Ascolta l'intervista in lingua originale inglese: RealAudioMP3

D. – La seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi è incentrata su riconciliazione, giustizia e pace: cosa fa la Chiesa eritrea per raggiungere questi tre obiettivi? R. - Prima di tutto il nostro lavoro consiste nella sensibilizzazione delle persone, della Chiesa e di tutte le persone di buona volontà, attraverso “laboratori”, manifesti, traduzioni e qualsiasi altro mezzo di comunicazione di massa. Riteniamo, infatti, che prima di tutto dobbiamo conoscere l’avvenimento in sé, di quali problemi tratterà il Sinodo: riconciliazione, giustizia, pace, parole molto importanti; tuttavia è necessario andare al di là del significato esterno e cercare di comprendere il significato più profondo, proprio come la Chiesa lo comprende, ed assicurarsi che anche la nostra gente lo comprenda, poiché le parole possono avere un significato diverso a seconda delle persone. Dunque, il nostro primo compito è quello di sensibilizzare e incoraggiare la nostra gente a capire.

D. – C’è una collaborazione con il governo per favorire la pace? Il potere politico ascolta le proposte della Chiesa?

R.- Cerchiamo di fare del nostro meglio per dire ciò che è giusto, per cercare di contattare le persone adatte, ma la risposta di coloro che sono al potere dipende molto dalle singole persone. Alcuni sono ben disposti a collaborare, altri meno. Per la Chiesa è positivo ricevere una risposta e una collaborazione efficace, ma dobbiamo andare avanti comunque. Continuiamo a sensibilizzare sulla significativa attuazione della riconciliazione, della pace e della giustizia; soprattutto nel nostro territorio, abbiamo bisogno di giustizia, abbiamo bisogno di pace e di riconciliazione, con tutti i conflitti, siccità, carestie presenti in quest’area dell’Africa Orientale. La Chiesa non deve mai fermarsi nel suo compito di esortare alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Naturalmente, la risposta di ogni individuo o gruppo dipende dalla predisposizione dei singoli gruppi e individui.

D. – Ufficialmente, la guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia è terminata nel 2000, ma poi ci sono stati altri conflitti. Qual è ora la situazione?

R.- La situazione potrebbe essere così definita: non vi è una pace completa, ma neanche guerra, il che rappresenta una situazione ancora peggiore, in un certo senso, poiché si tratta di una situazione anomala. La gente non può dire: “Abbiamo la pace” e recarsi a compiere le proprie attività, ma stare sempre in guardia contro l’eventuale scoppio di altri conflitti. Siamo, per così dire, in questa situazione. Speriamo che con l’aiuto della comunità internazionale e la buona volontà di entrambi i governi possiamo arrivare a una completa cessazione delle ostilità, a una pace completa e che la giustizia e la riconciliazione possano fiorire, poiché è molto difficile parlare di riconciliazione, quando ci si trova in questo genere di situazioni. La gente ha soprattutto bisogno di essere consolata. Questa guerra ha causato molti morti, sfollati, feriti, disabili; molte famiglie sono rimaste senza un padre, una figlia o un figlio…hanno bisogno di conforto. La nostra Chiesa si concentra in primo luogo sulla consolazione; proprio da quest’atteggiamento di conforto e sostegno potranno poi scaturire la riconciliazione, la giustizia e la pace. Ecco ciò che cerchiamo di fare.

D. – Quali sono le principali difficoltà che incontrano i cristiani in Eritrea?

R.- Facciamo del nostro meglio per vivere la nostra vita cristiana nel modo migliore. Le difficoltà sono ovunque. Ma non posso dire che siamo ostacolati nel nostro lavoro pastorale, nella celebrazione del culto nelle nostre chiese. Naturalmente, le difficoltà sono un po’ ovunque in questa situazione di “non guerra e non pace”; tante cose influenzano la vita della Chiesa, sia positivamente, sia negativamente.

D. – Il dialogo con le altre religioni, in particolare con l’Islam, è possibile?

R.- Per quanto riguarda il nostro rapporto con l’Islam, le cose vanno davvero bene. Nella maggior parte dei casi, i nostri fratelli musulmani, noi stessi e tutti i cristiani viviamo insieme, condividiamo tanti valori e credo che ci rispettiamo anche l’uno con l’altro. Così i nostri rapporti sono buoni e speriamo di continuare così per il futuro.

D.- All’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, lo scorso ottobre, è emerso spesso il problema delle sètte in Africa. Qual è la situazione in Eritrea?

R.- Con minore intensità, anche noi dobbiamo far fronte al problema delle sètte. È molto difficile conoscere le loro origini, i loro sostenitori, ma esistono. Non tante come in altri Paesi, quali il Kenya, Sud Africa, Nigeria; in Eritrea, anche se in misura inferiore, esistono comunque e sono una sfida, poiché alcuni dei nostri membri aderiscono ad esse. Ci chiediamo perché ciò accada, per esaminare meglio il nostro approccio pastorale. Perché queste persone, soprattutto giovani, lasciano la Chiesa cattolica, ortodossa o protestante e vogliono unirsi a queste sètte? Abbiamo bisogno di capire le ragioni che si nascondono dietro a questo passaggio. Che cosa li attrae? Che cosa hanno loro che manca, ad esempio, nella Chiesa cattolica? È una questione pastorale di grande rilevanza, poiché abbiamo bisogno di conoscere le cause di questa tendenza. Forse i giovani hanno bisogno di sperimentare la novità, ma non credo che questo sia l’unico motivo. Forse anche noi non espletiamo bene il nostro ministero con la gioventù, il nostro lavoro pastorale: abbiamo dunque bisogno di esaminare e cercare di trovare nuove vie nel nostro metodo pastorale per trattenere i nostri giovani nella loro Chiesa e cercare di soddisfarli. Poiché se non sono soddisfatti della loro Chiesa, cercheranno altre Chiese, altre sètte, che forse potranno dar loro la soddisfazione che ricercano.

D. – Le organizzazioni non governative, le associazioni di carità riescono ad operare liberamente in Eritrea?

R.- Vi sono pochissime organizzazioni non governative, siamo un piccolo Paese, al momento pochissime tra di loro operano in Eritrea.

D. – Di cosa ha più bisogno l’Eritrea in questo momento?

R.- Credo che l’Eritrea abbia soprattutto bisogno di una pace duratura e di cibo, poiché le piogge sono state molto scarse negli ultimi due anni e così anche i raccolti sono stati insufficienti. La gente non riesce a trovare cibo a sufficienza; se lo trova, è costretta a pagare prezzi altissimi. Abbiamo quindi bisogno di queste due cose in particolare: in primo luogo, la pace, una pace autentica e durevole, dove riconciliazione, giustizia e pace siano i principi-guida, e poi abbiamo bisogno di risolvere il problema della scarsità del cibo giornaliero per la maggior parte della nostra gente. Speriamo che la buona quantità di pioggia caduta durante l’estate possa aiutare la nostra gente a disporre di una maggiore quantità di cibo, cibo abbondante, affinché i loro figli e ogni altra persona sia soddisfatta. In tal modo, potremo passare allo stadio successivo, quello dello sviluppo, poiché se manca il cibo sufficiente, non si può pensare allo sviluppo, ma solo alla sopravvivenza: ho bisogno di sopravvivere, ho bisogno di mangiare per sopravvivere. Una volta assicurata un’adeguata quantità di cibo, altre attività potranno seguire.

D. – La Chiesa in Africa è sempre stata molto impegnata nel campo dell’educazione. Qual è la situazione in Eritrea?

R. - Siamo molto impegnati nel campo dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, della promozione umana, della promozione della donna, dell’assistenza ai bambini negli asili per l’infanzia; abbiamo scuole, cliniche, ospedali, centri di promozione.

D. – Quali sono le Sue aspettative per il Sinodo dei Vescovi per l’Africa?

R.- Mi aspetto che questo Sinodo possa essere davvero uno strumento attraverso il quale la Chiesa in Africa possa cogliere i problemi in modo onesto e franco, è molto importante individuare i problemi in modo aperto e onesto. Questa è la prima attesa. In secondo luogo, dopo averli individuati, occorre prendere misure concrete per dare il nostro contributo. Sono sicuro che la Chiesa da sola non possa risolvere i problemi dell’Africa, ma può dare un ottimo contributo. Come autorità morale in Africa, la Chiesa può aiutare, prima di tutto, ad educare le persone a diventare artigiani di pace fin dai primi anni di età, ad insegnare agli africani ad essere amanti della pace ad impegnarsi per la causa della giustizia e della riconciliazione. Possiamo, inoltre, fare molto con il nostro concreto impegno per lo sviluppo dei popoli, nell’assistenza ai più vulnerabili, ai malati, ai poveri. Il nostro impegno ecclesiale di aiuto ai poveri non deve solo salvare le persone dalla morte, ma deve significare qualcosa di più: aiutare le persone ad esprimere la loro identità, a sviluppare le loro capacità al massimo livello. Ecco ciò che mi attendo e sono sicuro che molti dei miei confratelli, vescovi e delegati, condividono questo obiettivo, questa aspettativa. Discorsi, auspici e programmi per l’Africa non sono mancati in passato: è tempo, ora, che noi africani prendiamo la situazione nelle nostre mani, la analizziamo con franchezza e assumiamo infine le misure necessarie per impegnarci a risolvere i diversi problemi. Ecco le mie attese.








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