Progressi e difficoltà della Chiesa d'Eritrea dinanzi agli obiettivi del secondo Sinodo
per l'Africa
Tra pochi giorni, si aprirà in Vaticano il Sinodo dei Vescovi per l’Africa. Dal 4
al 25 ottobre, dunque, i presuli rifletteranno sui temi della riconciliazione, della
giustizia e della pace. Si tratta della seconda Assemblea Speciale dedicata al continente
africano, dopo quella del 1994. Isabella Piro ha intervistato, in proposito,
Mons. Menghesteab Tesfamariam, Vescovo di Asmara, in Eritrea. Ascolta l'intervista
in lingua originale inglese:
D. – La
seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi è incentrata su riconciliazione,
giustizia e pace: cosa fa la Chiesa eritrea per raggiungere questi tre obiettivi?
R. - Prima di tutto il nostro lavoro consiste nella sensibilizzazione delle persone,
della Chiesa e di tutte le persone di buona volontà, attraverso “laboratori”, manifesti,
traduzioni e qualsiasi altro mezzo di comunicazione di massa. Riteniamo, infatti,
che prima di tutto dobbiamo conoscere l’avvenimento in sé, di quali problemi tratterà
il Sinodo: riconciliazione, giustizia, pace, parole molto importanti; tuttavia è necessario
andare al di là del significato esterno e cercare di comprendere il significato più
profondo, proprio come la Chiesa lo comprende, ed assicurarsi che anche la nostra
gente lo comprenda, poiché le parole possono avere un significato diverso a seconda
delle persone. Dunque, il nostro primo compito è quello di sensibilizzare e incoraggiare
la nostra gente a capire.
D. – C’è una collaborazione con il governo
per favorire la pace? Il potere politico ascolta le proposte della Chiesa?
R.-
Cerchiamo di fare del nostro meglio per dire ciò che è giusto, per cercare di contattare
le persone adatte, ma la risposta di coloro che sono al potere dipende molto dalle
singole persone. Alcuni sono ben disposti a collaborare, altri meno. Per la Chiesa
è positivo ricevere una risposta e una collaborazione efficace, ma dobbiamo andare
avanti comunque. Continuiamo a sensibilizzare sulla significativa attuazione della
riconciliazione, della pace e della giustizia; soprattutto nel nostro territorio,
abbiamo bisogno di giustizia, abbiamo bisogno di pace e di riconciliazione, con tutti
i conflitti, siccità, carestie presenti in quest’area dell’Africa Orientale. La Chiesa
non deve mai fermarsi nel suo compito di esortare alla riconciliazione, alla giustizia
e alla pace. Naturalmente, la risposta di ogni individuo o gruppo dipende dalla predisposizione
dei singoli gruppi e individui.
D. – Ufficialmente, la guerra tra l’Eritrea
e l’Etiopia è terminata nel 2000, ma poi ci sono stati altri conflitti. Qual è ora
la situazione?
R.- La situazione potrebbe essere così definita: non
vi è una pace completa, ma neanche guerra, il che rappresenta una situazione ancora
peggiore, in un certo senso, poiché si tratta di una situazione anomala. La gente
non può dire: “Abbiamo la pace” e recarsi a compiere le proprie attività, ma stare
sempre in guardia contro l’eventuale scoppio di altri conflitti. Siamo, per così dire,
in questa situazione. Speriamo che con l’aiuto della comunità internazionale e la
buona volontà di entrambi i governi possiamo arrivare a una completa cessazione delle
ostilità, a una pace completa e che la giustizia e la riconciliazione possano fiorire,
poiché è molto difficile parlare di riconciliazione, quando ci si trova in questo
genere di situazioni. La gente ha soprattutto bisogno di essere consolata. Questa
guerra ha causato molti morti, sfollati, feriti, disabili; molte famiglie sono rimaste
senza un padre, una figlia o un figlio…hanno bisogno di conforto. La nostra Chiesa
si concentra in primo luogo sulla consolazione; proprio da quest’atteggiamento di
conforto e sostegno potranno poi scaturire la riconciliazione, la giustizia e la pace.
Ecco ciò che cerchiamo di fare.
D. – Quali sono le principali difficoltà
che incontrano i cristiani in Eritrea?
R.- Facciamo del nostro meglio
per vivere la nostra vita cristiana nel modo migliore. Le difficoltà sono ovunque.
Ma non posso dire che siamo ostacolati nel nostro lavoro pastorale, nella celebrazione
del culto nelle nostre chiese. Naturalmente, le difficoltà sono un po’ ovunque in
questa situazione di “non guerra e non pace”; tante cose influenzano la vita della
Chiesa, sia positivamente, sia negativamente.
D. – Il dialogo con le
altre religioni, in particolare con l’Islam, è possibile?
R.- Per quanto
riguarda il nostro rapporto con l’Islam, le cose vanno davvero bene. Nella maggior
parte dei casi, i nostri fratelli musulmani, noi stessi e tutti i cristiani viviamo
insieme, condividiamo tanti valori e credo che ci rispettiamo anche l’uno con l’altro.
Così i nostri rapporti sono buoni e speriamo di continuare così per il futuro.
D.-
All’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, lo scorso ottobre,
è emerso spesso il problema delle sètte in Africa. Qual è la situazione in Eritrea?
R.-
Con minore intensità, anche noi dobbiamo far fronte al problema delle sètte. È molto
difficile conoscere le loro origini, i loro sostenitori, ma esistono. Non tante come
in altri Paesi, quali il Kenya, Sud Africa, Nigeria; in Eritrea, anche se in misura
inferiore, esistono comunque e sono una sfida, poiché alcuni dei nostri membri aderiscono
ad esse. Ci chiediamo perché ciò accada, per esaminare meglio il nostro approccio
pastorale. Perché queste persone, soprattutto giovani, lasciano la Chiesa cattolica,
ortodossa o protestante e vogliono unirsi a queste sètte? Abbiamo bisogno di capire
le ragioni che si nascondono dietro a questo passaggio. Che cosa li attrae? Che cosa
hanno loro che manca, ad esempio, nella Chiesa cattolica? È una questione pastorale
di grande rilevanza, poiché abbiamo bisogno di conoscere le cause di questa tendenza.
Forse i giovani hanno bisogno di sperimentare la novità, ma non credo che questo sia
l’unico motivo. Forse anche noi non espletiamo bene il nostro ministero con la gioventù,
il nostro lavoro pastorale: abbiamo dunque bisogno di esaminare e cercare di trovare
nuove vie nel nostro metodo pastorale per trattenere i nostri giovani nella loro Chiesa
e cercare di soddisfarli. Poiché se non sono soddisfatti della loro Chiesa, cercheranno
altre Chiese, altre sètte, che forse potranno dar loro la soddisfazione che ricercano.
D.
– Le organizzazioni non governative, le associazioni di carità riescono ad operare
liberamente in Eritrea?
R.- Vi sono pochissime organizzazioni non governative,
siamo un piccolo Paese, al momento pochissime tra di loro operano in Eritrea.
D.
– Di cosa ha più bisogno l’Eritrea in questo momento?
R.- Credo che
l’Eritrea abbia soprattutto bisogno di una pace duratura e di cibo, poiché le piogge
sono state molto scarse negli ultimi due anni e così anche i raccolti sono stati insufficienti.
La gente non riesce a trovare cibo a sufficienza; se lo trova, è costretta a pagare
prezzi altissimi. Abbiamo quindi bisogno di queste due cose in particolare: in primo
luogo, la pace, una pace autentica e durevole, dove riconciliazione, giustizia e pace
siano i principi-guida, e poi abbiamo bisogno di risolvere il problema della scarsità
del cibo giornaliero per la maggior parte della nostra gente. Speriamo che la buona
quantità di pioggia caduta durante l’estate possa aiutare la nostra gente a disporre
di una maggiore quantità di cibo, cibo abbondante, affinché i loro figli e ogni altra
persona sia soddisfatta. In tal modo, potremo passare allo stadio successivo, quello
dello sviluppo, poiché se manca il cibo sufficiente, non si può pensare allo sviluppo,
ma solo alla sopravvivenza: ho bisogno di sopravvivere, ho bisogno di mangiare per
sopravvivere. Una volta assicurata un’adeguata quantità di cibo, altre attività potranno
seguire.
D. – La Chiesa in Africa è sempre stata molto impegnata nel
campo dell’educazione. Qual è la situazione in Eritrea?
R. - Siamo molto
impegnati nel campo dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, della promozione
umana, della promozione della donna, dell’assistenza ai bambini negli asili per l’infanzia;
abbiamo scuole, cliniche, ospedali, centri di promozione.
D. – Quali
sono le Sue aspettative per il Sinodo dei Vescovi per l’Africa?
R.-
Mi aspetto che questo Sinodo possa essere davvero uno strumento attraverso il quale
la Chiesa in Africa possa cogliere i problemi in modo onesto e franco, è molto importante
individuare i problemi in modo aperto e onesto. Questa è la prima attesa. In secondo
luogo, dopo averli individuati, occorre prendere misure concrete per dare il nostro
contributo. Sono sicuro che la Chiesa da sola non possa risolvere i problemi dell’Africa,
ma può dare un ottimo contributo. Come autorità morale in Africa, la Chiesa può aiutare,
prima di tutto, ad educare le persone a diventare artigiani di pace fin dai primi
anni di età, ad insegnare agli africani ad essere amanti della pace ad impegnarsi
per la causa della giustizia e della riconciliazione. Possiamo, inoltre, fare molto
con il nostro concreto impegno per lo sviluppo dei popoli, nell’assistenza ai più
vulnerabili, ai malati, ai poveri. Il nostro impegno ecclesiale di aiuto ai poveri
non deve solo salvare le persone dalla morte, ma deve significare qualcosa di più:
aiutare le persone ad esprimere la loro identità, a sviluppare le loro capacità al
massimo livello. Ecco ciò che mi attendo e sono sicuro che molti dei miei confratelli,
vescovi e delegati, condividono questo obiettivo, questa aspettativa. Discorsi, auspici
e programmi per l’Africa non sono mancati in passato: è tempo, ora, che noi africani
prendiamo la situazione nelle nostre mani, la analizziamo con franchezza e assumiamo
infine le misure necessarie per impegnarci a risolvere i diversi problemi. Ecco le
mie attese.