L'Occidente che non conosce l'Africa. Alla ricerca di nuovi paradigmi giornalistici
per comprendere meglio la realtà africana
“I mass media devono essere incoraggiati affinché, sul loro esempio, un numero sempre
più grande di cattolici diffondano nelle nostre città africane, per mezzo di questi
mezzi, informazioni giuste, credibili e costruttive, come pure messaggi di gioia,
amicizia ed amore fraterno”. È quanto si legge nell’Instrumentum Laboris, il documento
di lavoro dell’imminente Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che si terrà in Vaticano
dal 4 al 25 ottobre. Incentrata sui temi della riconciliazione, della giustizia e
della pace, questa Assemblea Speciale è la seconda dedicata all’Africa, dopo quella
del 1994. Sulla necessità di adottare nuovi paradigmi comunicativi, più coerenti con
la realtà africana, Silvia Koch ha intervistato Jean Léonard Touadì,
giornalista e scrittore congolese. Ascolta l'intervista:
D. - Perché
oggi si parla della necessità di nuovi linguaggi giornalistici per informare sulla
vita dei paesi africani?
R. - La mia impressione è che l’informazione
occidentale sull’Africa sia ancora prigioniera degli stereotipi, dei pregiudizi etnologici
dell’Ottocento e del Novecento. Il risultato è una rappresentazione di questo continente
che non fotografa l’oggi, ma che continua a riprodurre l’immaginario sedimentato nei
secoli passati. Questo ci impedisce di cogliere i nuovi fenomeni e le forme di espressione
originali delle società africane, che potrebbero rappresentare, diversamente, un contributo
interessante alla nostra conoscenza della realtà locale. Dobbiamo, allora, rinnovare
i nostri linguaggi e affinare quegli strumenti che facilitano una migliore comprensione
del continente, così vario e articolato. Io penso che tale fondamentale opera di rinnovamento
dei codici della comunicazione possa iniziare dalla considerazione della letteratura,
della poesia, dell’arte, del cinema e di tutti quei linguaggi che consentono di penetrare
la realtà locale originaria, al di là delle mediazioni sovrastrutturali del passato.
D.
- Come giudica determinate esperienze di media internazionali in Africa, i cosiddetti
“media di pace”, come ad esempio la Radio Okapi del Congo, legata alle Nazioni Unite?
R.
- La radio ricopre un ruolo molto importante in Africa perché riproduce, in qualche
modo, la tradizione orale. Una tradizione che si esprime “da bocca a orecchio”, tipica
di questo continente nel quale l’analfabetismo è estremamente diffuso. In Africa,
la radio è intesa come mezzo di comunicazione e come strumento di sviluppo, ma anche
come canale per veicolare messaggi di pace, per diffondere una cultura di concordia,
di condivisione dinanzi alle difficoltà e di promozione di nuove relazioni tra le
etnie e gruppi in opposizione. Così come in determinate occasioni, ad esempio nel
Ruanda del 1994, la radio si è fatta portavoce di sentimenti di odio e divisione che
hanno portato ad atti di violenza inaudita, come il genocidio. In altri contesti,
invece, questo mezzo di comunicazione assume oggi un ruolo significativo in quanto
cemento di nuove socialità e di nuovi orizzonti di pace. A mio avviso questo è molto
importante.
D. - In un momento come quello che stiamo vivendo, da Lei
definito “di chiusura” da parte delle nazioni europee - che si manifesta attraverso
le attuali scelte degli Stati nell’ambito delle politiche sull’immigrazione - come
è possibile abbattere le barriere della “fortezza europea” e tornare all’idea di “Eurafrica”
del celebre padre della patria senegalese, Léopold Sédar Senghor?
R.
- Innanzitutto dobbiamo comprendere che non siamo soli al mondo. In un’epoca di globalizzazione,
quale è quella odierna, ogni parola pronunciata, ogni azione commessa viene ascoltata,
vista e giudicata altrove. La mia impressione è che i nostri politici, la stampa e
l’opinione pubblica non siano ancora consapevoli del carattere “glocale” dei nuovi
mezzi di comunicazione. Di conseguenza, il modo con cui stiamo affrontando la questione
dell’immigrazione, molto rigido, severo e repressivo all’interno e “di chiusura” all’esterno
delle frontiere, sta provocando in Africa un sentimento di rigetto nei confronti dell’Europa.
Un rifiuto di antichi legami plasmati dalla storia e dalla geografia comuni. Io credo
che noi dobbiamo ricostruire questo ponte con l’Africa e ripristinare, a partire dallo
scambio culturale, un contatto diretto tra i popoli. Le comunità devono tornare a
frequentarsi e a conoscersi reciprocamente. Da questo punto di vista, la diaspora
africana in Europa può essere di aiuto, perché la presenza degli africani ci stimola
a riallacciare relazioni sociali e culturali.
D. - Come immagina un
progetto di scambio formativo tra giornalisti africani ed europei, del quale si è
fatto promotore?
R. - Penso non a un corso di formazione unilaterale,
ma a uno spazio di contaminazione reciproca, nel quale i giornalisti africani possano
portare l’autenticità e il vissuto del loro continente e della loro professione. Gli
europei, d’altro canto, potranno sostenerli dal punto di vista teorico, tecnico e
tecnologico. La mia idea è quella di realizzare occasioni di “impollinazione reciproca”
tra giornalisti.