Il celibato sacerdotale nella cultura tradizionale africana
“L’inculturazione della Chiesa in Africa”, già nel 1994 tra gli obiettivi della prima
Assemblea Speciale dei Vescovi per l’Africa, torna ad essere uno dei temi centrali
del secondo Sinodo dedicato a questo continente, che avrà luogo dal 4 al 25 ottobre
in Vaticano, sul tema della riconciliazione, della giustizia e della pace. La sfida
è duplice: portare il Vangelo nel cuore dell’Africa, ma anche consentire una certa
“africanizzazione” delle prassi cattoliche. Tra le principali difficoltà poste dall’incontro
tra la religione cattolica e le diverse tradizioni africane, c’è la questione del
celibato sacerdotale. Isabella Piro ne ha parlato con Don Dario Vitali,
docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Università Gregoriana. ascolta l'intervista:
D. – Partiamo
da una premessa generale: quali sono le origini storiche e teologiche del celibato
sacerdotale?
R. - Il celibato sacerdotale si afferma nella Chiesa in
genere e, soprattutto nella Chiesa latina, nei primi secoli, in relazione proprio
con il ministero sacerdotale. Un’interpretazione del ministero in senso pieno come
totale dedicazione di sé e del proprio servizio alla Chiesa, che non sembra poter
accettare nessuna divisione del cuore. Quindi, una totale presenza al Signore e una
totale presenza al ministero da offrire alla Chiesa. Già nei primi secoli questo diventa
una realtà ben consolidata e nella Chiesa latina diventa una modalità piena per l’esercizio
del ministero sacerdotale.
D. – Spostiamoci nello specifico e guardiamo
all’Africa: a Suo parere, in questo Continente il non rispetto del celibato sacerdotale
rappresenta un problema particolarmente sentito? E per quale motivo?
R.
– Da quello che io posso cogliere, anche attraverso l’incontro con i miei studenti
che provengono dall’Africa – io insegno Ecclesiologia alla Pontificia Università Gregoriana
– questo problema è sicuramente avvertito. È un problema di carattere, mi pare, fortemente
culturale, nel senso che, nella tradizione africana, l’idea di un’interruzione della
generazione e quindi di quella che, secondo la prospettiva tipica loro, è chiamata
“la prospettiva degli antenati o degli avi” è sicuramente di grande peso. Per cui,
forse non è tanto il problema del celibato in sé, quanto dell’impossibilità di generare
figli che pone una questione di grande peso e quindi che pone difficoltà, esattamente,
all’accettazione piena di questa tradizione tipica della Chiesa latina.
D.
- In Occidente, invece, questa prospettiva non c’è?
R. – Non manca la
riflessione sulla famiglia, sicuramente. Piuttosto, si è sviluppato un doppio registro
di riflessione: quello tipico relativo alla famiglia per quanto riguarda il matrimonio,
il matrimonio cristiano, quindi la forma di dedicazione al Signore attraverso questa
vocazione, ma contemporaneamente anche una forte riflessione sul ministero ordinato
e quindi sulla possibilità e sulla “necessità” che questo sia un ministero totalmente
dedicato al Signore e quindi non all’interno di una famiglia.
D. –
A livello formativo, nei seminari ad esempio, c’è sufficiente attenzione a questo
problema, secondo Lei?
R. – Possiamo dire che questo è uno degli argomenti
più guardati con profonda attenzione, anche con quella forma di rispetto e di dovuta
problematicità che oggi ha assunto, a causa di una mentalità così poco attenta all’oblatività
nel campo della sessualità e nel campo, quindi, della vita donata totalmente nel ministero
sacerdotale. Quindi, su questo fronte di una non comprensione, da parte della cultura
contemporanea, di questo valore, mi pare che nei seminari si proceda dovutamente e
attentamente a questa riflessione intorno al celibato e intorno, mi pare, alla verginità,
tenendo conto che le due realtà, sostanzialmente, non differiscono. Non si tratta,
semplicemente, di non procedere alla costruzione della famiglia, ma di mantenere un
atteggiamento di totale dedicazione al Signore, di offerta di sé e della propria sessualità.
E non solo: di offerta del proprio cuore al Signore e al servizio da rendere a Lui
e alla Chiesa.
D. – Gli episcopati locali africani, secondo Lei, quali
strategie potrebbero mettere in atto per contrastare il fenomeno dei preti sposati?
R.
– Per contrastare questo fenomeno credo che si debba affermare, con estrema chiarezza,
quella che è la tradizione, la forma piena dell’appartenenza alla Chiesa. Mi pare,
però, che il problema non sia tanto quello dei preti sposati, ma di coloro che vivono
come se lo fossero, senza porsi il problema, senza riflettere, quasi che fosse una
realtà scontata, e quindi producendo un doppio registro di vita: quello pubblico,
che si manifesta in un modo, e quello privato che procede su tutt’altri registri.
E allora mi pare che, sotto questo profilo, la prima e fondamentale necessità sia
quella di una riflessione attenta e anche di una verifica attenta, a monte, di coloro
che accedono al ministero ordinato. Perché troppe volte, come dice il proverbio, “necessità
fa virtù” e si ammette all’ordine gente che, sicuramente, non ha motivazioni profonde,
semplicemente perché bisogna coprire dei posti. Allora, la prima strategia, sicuramente,
è quella di una verifica attenta della vocazione a monte e poi quella di un’appartenenza
forte, sicura, nella Chiesa locale, con un servizio al popolo di Dio, nella collaborazione
con il Vescovo, nell’appartenenza soprattutto ad un presbiterio dove la fraternità
ministeriale, che è una fraternità fondata sul ministero dell’ordine, permette sicuramente
una vita all’interno del ministero più serena, più motivata e più capace, di conseguenza,
di resistere a queste forme di “contaminazione”, potremmo dire, che tanto turbano
la Chiesa.
D. – Di fronte, invece, ad un caso ormai compiuto di violazione
del celibato come si comporta la Chiesa?
R. – Mi pare che per questo,
ormai, Benedetto XVI e la Chiesa abbiano tracciato un’indicazione precisa: stante
la legislazione della Chiesa di un ministero che sia fondato esattamente su questa
prospettiva, la scelta è quella di procedere alla verifica delle intenzioni, degli
atteggiamenti, delle motivazioni e, di conseguenza, o richiamare ad una rettitudine
di vita, se è ancora possibile, o altrimenti dimettere dal ministero perché la contraddizione,
la contro-testimonianza non fanno bene a nessuno.
D. - A Suo parere,
il prossimo Sinodo dei Vescovi per l’Africa potrà offrire una risposta a questa problematica?
R.
– È possibile. In questa prospettiva, è chiaro che dipende dalla sinergia di molte
volontà: la volontà dei Vescovi dovrebbe essere quella di un rinnovamento della Chiesa
d’Africa con coraggio, con fermezza, secondo, sicuramente – come diceva il Concilio
Vaticano II – le tradizioni delle parti in comunione con la Chiesa universale e quindi
in ascolto di quelle che sono le indicazioni che provengono dal Santo Padre. La possibilità
è data davvero da questa forma di consenso a cui tutti gli appartenenti a quella Chiesa
d’Africa sono chiamati, quindi: un popolo di Dio che voglia vivere il Vangelo, i suoi
Pastori che vogliano testimoniarlo e vogliano rinnovare la forza dell’obbedienza alla
Parola di Dio e i suoi ministri che possano testimoniare, non solo con le parole,
ma anche con la vita, una capacità di incarnazione del Vangelo che si rinnova sempre
per l’azione dello Spirito. Quindi, la possibilità c’è e c’è chiaramente. Dipende
da quanta volontà c’è, da quanta disponibilità c’è ad ascoltare il Signore ed il Suo
Spirito, ad ascoltare il Vangelo, a metterlo in pratica, di quanta volontà c’è a camminare
come popolo di Dio nella fedeltà alla Parola che il Signore ci ha dato ed alla strada
che Lui ci ha tracciato.