All'origine della crisi agricola che affligge l'Africa: la responsabilità dell'Occidente
e alcuni sentieri di speranza
Un ecosistema difficile, la tendenza alla desertificazione, un accesso problematico
alla terra: sono alcune delle cause della fame e della crisi dell’agricoltura in Africa.
Un problema cruciale, sul quale rifletterà il Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che
si terrà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre, sui temi della riconciliazione, della giustizia
e della pace. Si tratta della seconda Assemblea Speciale dedicata al continente africano,
dopo quella del 1994. Sulle radici della crisi agricola che affligge l’Africa, Silvia
Koch ha intervistato Maria Vittoria De Marchi, portavoce per l’Italia del
Programma Alimentare Mondiale. Ascolta l'intervista:
D. - Circa
un miliardo di individui, una persona su sei al mondo, soffre la fame. Di questi,
oltre 270 milioni si trovano in Africa. Come si distribuisce la povertà sul continente
africano e quali sono le principali cause?
R. - La più colpita dalla
povertà è l’Africa sub-sahariana, dove si concentra un numero molto alto di persone
che soffrono la fame e nella quale quasi tutti i paesi ciclicamente rischiano la povertà.
La non accessibilità al cibo è la prima causa di morte in Africa: provoca più vittime
della malaria, della tubercolosi e dell’Aids combinati insieme. Questa miseria - che
direi endemica - ha ragioni diverse a seconda dell’area specifica. In alcuni casi
è dovuta ai conflitti – ne sono esempio il Darfur, il Ciad o il Congo, dove una guerra
strisciante obbliga da anni le popolazioni a fuggire e spinge chi ne ha la possibilità
a trovare riparo altrove. Altre volte è invece riconducibile allo smembramento di
uno Stato nazionale, come in Somalia - dove la fame si associa alla realtà di un territorio
fuori controllo per il governo. Ancora, un’altra causa di povertà sono i fattori climatici
– pensiamo al Corno d’Africa, colpito da frequenti siccità o inondazioni. Diversi
paesi, poi, hanno difficoltà a dotarsi di infrastrutture, di istituzioni politiche
stabili e sono restii nel darsi buone pratiche di governo – la cosiddetta good governance.
L’inefficienza degli Stati è un’aggravante che, in molti contesti, impedisce di far
fronte al dramma della povertà. Ci sono però anche esempi positivi, come il Ghana,
che è riuscito a combattere con grande efficacia la povertà e che rappresenta uno
degli esempi riusciti di progresso, anche dal punto di vista del raggiungimento degli
obbiettivi di sviluppo del Millennio.
D. - In Africa, continente ancora
prevalentemente agricolo, la fame è collegata direttamente con le caratteristiche
del sistema produttivo rurale. Quali sono i principali elementi della crisi agricola
che affligge molti paesi africani?
R. - La mancanza di infrastrutture,
di servizi, di tecnologie e di sementi. Ma anche la difficoltà di accesso ai mercati
in quanto venditori. Le merci dei piccoli contadini spesso non sono in grado di reggere
la concorrenza con le produzioni industriali. Inoltre, l’instabilità politica e sociale,
come anche lo stato di belligeranza che persevera in diversi paesi, sono tutti fattori
che danneggiano, a volte distruggono, l’apparato produttivo locale. Le conseguenze
principali di un sistema economico che non funziona si registrano nella denutrizione
- specialmente delle mamme e dei bambini - nella penalizzazione del sistema sanitario
ed istruttivo - a causa della mancanza di risorse – e nella distruzione del tessuto
di protezione sociale, che è fondamentale in questi paesi. Ecco perché anche nei periodi
di forte emergenza economica, come quello in atto, il Programma Alimentare delle Nazioni
Unite continua a promuovere la creazione di reti di sicurezza, affinché le persone
che non hanno possibilità di accesso autonomo ai beni di prima di prima necessità,
possano sempre trovare un sostegno nella comunità di appartenenza.
D.
- Benedetto XVI, nell’Enciclica “Caritas in Veritate”, fa riferimento allo “scandalo
delle disuguaglianze clamorose”, che persistono nel mondo. Il divario tra paesi ricchi
e poveri sta aumentando sotto i colpi cella crisi mondiale? Qual’è la responsabilità
delle Istituzioni Finanziarie Internazionali?
R. - Esiste soprattutto
un’enorme diseguaglianza nel modo con cui determinate crisi colpiscono, con maggiore
intensità, il sud del mondo. Pensiamo, ad esempio, all’aumento dei prezzi alimentari
che si è registrato l’anno scorso. Vero è che il fenomeno ha colpito in generale tutti
i continenti ma, mentre nei paesi occidentali, la spesa per il cibo incide per circa
il 20% sul budget familiare, in un paese in via di sviluppo questa percentuale arriva
al 60, a volte il 70%. Spesso in Africa il problema delle vittime della fame non è
la mancanza di cibo, ma l’assenza di denaro per acquistarlo. È chiaro, dunque, che
alcuni fenomeni globali hanno ripercussioni particolarmente drammatiche sulle economie
del sud del mondo, perché qui non sono stati attivati dei meccanismi di protezione
e di sostegno all’agricoltura, non sono state create infrastrutture sanitarie e non
è stato investito abbastanza nel settore dell’educazione. Anche la drastica riduzione
delle rimesse, causata dall’aumento della disoccupazione nei paesi industrializzati,
rende più gravi gli effetti della crisi finanziaria sulle economie già deboli. Ci
sono paesi africani, ma anche asiatici o del sud America che sono stati interessati
da una forte emigrazione e il cui prodotto interno lordo dipende in larga misura dalle
rimesse. Nell’ambito degli stessi paesi in via di sviluppo, poi, si è creato un nuovo
divario tra alcune nazioni emergenti dell’Asia e del Sudamerica - che hanno registrato
un tasso accelerato di sviluppo negli ultimi anni e che si avviano a una relativa
autonomia anche nell’elaborazione delle politiche sociali - e l’Africa sub-sahariana
che, salvo rarissime eccezioni, registra invece le maggiori battute di arresto. Nel
continente africano la crisi economica tende ad annullare anche i pochi vantaggi acquisiti
dai ceti urbanizzati, dalla classe media in formazione. Da non dimenticare, poi, la
riduzione degli investimenti e degli aiuti allo sviluppo devoluti dall’Occidente.
Credo sia responsabilità proprio dei paesi industrializzati e delle Organizzazioni
Internazionali riattivare un circolo virtuoso a favore delle economie deboli, per
mezzo degli investimenti ma anche grazie alla revisione di quei negoziati commerciali
che non promuovono la crescita dei paesi svantaggiati.
D. - Sempre nell’Enciclica,
il Papa sottolinea la necessità di impostare un nuovo modello di sviluppo sulla giustizia
e sull’inclusione delle realtà più svantaggiate. Da dove si deve partire per fondare
un’economia in grado di generare ricchezza per tutti?
R. - Innanzitutto
reimpostando le regole internazionali del commercio, affinché i prodotti delle economie
in via di sviluppo possano avere uguale dignità e possibilità di accesso ai mercati
internazionali. È importante anche aiutare questi paesi a organizzare meglio il proprio
sistema agricolo. Questo non significa soltanto migliorare le produzioni o aumentare
gli investimenti nel settore specifico, ma anche aiutare i piccoli contadini a rendere
le proprie merci competitive sul mercato locale e internazionale. Come PAM, abbiamo
recentemente avviato diversi progetti pilota, nell’ambito dei quali sosteniamo piccoli
agricoltori acquistando i loro prodotti, che poi ci serviranno per intervenire in
situazioni di emergenza nella regione stessa. L’altro elemento, a mio avviso fondamentale
per poter realizzare, in futuro, una giustizia sociale ed economica, è garantire l’educazione.
Ricordo un altro programma realizzato dal PAM, che prevede la fornitura dei pasti
ai bambini che vanno a scuola. Per alcuni di essi questo cibo rappresenta l’unica
fonte di nutrimento, ma il progetto vuole essere anche un motore per l’alfabetizzazione
i giovani. L’istruzione è fondamentale per la costruzione del proprio futuro.
D.
- Quali sono le maggiori difficoltà che riscontrate nell’attuare i vostri programmi
di sviluppo?
R. - Il problema principale - per noi che siamo un’agenzia
delle Nazioni Unite finanziata dai contributi volontari dei governi e dei privati
– è quello di riuscire ad avere fondi per attuare i nostri progetti. Generalmente
riusciamo a raccogliere addirittura meno della metà di quello che, secondo il nostro
bilancio, sarebbe necessario per assistere oltre 100 milioni di persone. Questo si
tradurrà in un taglio drastico nei programmi e nelle razioni di cibo.
D.
- Esistono alcune Organizzazioni sovranazionali africane che cercano di promuovere
lo sviluppo nei paesi membri. Istituzioni come il NEPAD (New Partnership for Africa’s
Development) o la CEDEAO (Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest)
costituiscono strumenti efficaci per rilanciare le economie del continente? Esistono
forme di collaborazione tra le Organizzazioni panafricane e quelle internazionali,
come le agenzie di sviluppo delle Nazioni Unite?
R. - Ritengo che gli
organismi panafricani siano fondamentali e mi auguro che i singoli Stati promuovano
anche in futuro nuove forme di coordinamento sovranazionale. Sono segnali di un protagonismo
politico dell’Africa essenziale affinché le esigenze e le iniziative del continente
possano avere più peso, anche sulla scena mondiale. Già in passato, ci sono stati
molti interventi paralleli e forum mondiali ai quali hanno partecipato, tra gli altri,
le Nazioni Unite, l’Unione Africana e il Nepad. In generale, si sta promuovendo una
sempre maggiore collaborazione internazionale, sia sul fronte del peacekeeping che
dal punto di vista del peacebuilding.