2009-09-21 17:07:41

Alle radici delle "guerre dimenticate" d'Africa. Una geografia delle principali aree di conflitto


Somalia, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo. E ancora: Uganda, Sudan, Nigeria e Algeria. L’elenco dei Paesi africani devastati da conflitti è sempre troppo lungo. Eppure, spesso queste guerre, cause di innumerevoli vittime e ingenti danni materiali, vengono quasi “dimenticate” dai media internazionali. Su questo problema si concentrerà invece l’imminente Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre. Dedicata al tema della riconciliazione, della giustizia e della pace, questa Assemblea Speciale dei Vescovi è la seconda dedicata al continente africano, dopo quella del 1994. Sulla natura dei conflitti africani, Silvia Koch ha intervistato il prof. Giampaolo Calchi Novati, ordinario di Storia e istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici all’Università di Pavia. Ascolta un estratto dell'intervista sul legame tra le guerre e le risorse naturali dell'Africa: RealAudioMP3

D. - Professore, quali sono le principali aree di conflitto oggi in Africa?

R. - La Somalia e il Sudan, specialmente sul fronte Sudan-Darfour. L’altro conflitto sudanese, quello tra il nord e il sud, è in via di pacificazione, benché ci si possa aspettare qualche recrudescenza in vista delle elezioni previste per il 2011, quando si dovrebbe votare per un’eventuale secessione del sud dal resto del paese.

C’è, poi, una situazione di conflittualità, poco nota ai media internazionali, nella fascia immediatamente sub-sahariana, chiamata saheliano-sudanese, dove la tensione è generata dal confronto tra movimenti cosiddetti salafisti, islamisti-fondamentalisti e forme di repressione delle stesse, coordinata anche a livello internazionale. Va ricordato il Congo, perché la parte nord-orientale è probabilmente fuori dal controllo del governo centrale ed è continuamente oggetto di tensioni. Attualmente si sta portando avanti un processo di pace tra il Congo e il Ruanda, che erano i principali competitori. Un altro caso poco noto è quello della Guinea Bissau, che recentemente è stata teatro di colpo di Stato e dove passa, pare, tutto il traffico della droga che è in transito per il continente africano. L’Africa australe sta vivendo, invece, una situazione relativamente più stabile. La crisi in Zimbabwe, che tra l’altro sembra aver trovato una soluzione nella creazione di un governo bipartisan, non è fortunatamente sfociata in una vera guerra, sebbene si siano registrati episodi di abusi nei confronti dei diritti dell’uomo, delle associazioni e dei partiti.

D. - Perché queste crisi belliche vengono comunemente dette “guerre dimenticate”?

R. - L’espressione “conflitto dimenticato” non rappresenta sempre la realtà. È diventato un modo di dire mediatico, con cui da una parte si vuole ribadire la perifericità e quasi la marginalità dell’Africa nel sistema mondiale, nella nostra attenzione e nella nostra coscienza. Dall’altra, si vuole assolvere la Comunità Internazionale dall’incapacità di far fronte non tanto alla crisi in sé, ma ai motivi più profondi, reali e globali delle stesse guerre. Ci sono delle guerre croniche che si trascinano quasi come un modus vivendi regolare. Su questo stato di conflittualità latente a volte si registrano delle impennate e generalmente soltanto questi episodi vengono divulgati dai media internazionali. Spesso tali eventi o elementi parziali, che non consentono di comprendere la complessità della crisi, vengono addirittura “spettacolarizzati” dai media, esagerati rispetto alla realtà dei fatti – è il caso, ad esempio, delle cifre sulle vittime di alcune emergenze. Il fatto che l’opinione pubblica venga informata solo di tanto in tanto è un’aggravante, perché fa si che si ignorino le permanenze, le cause, le radici dei conflitti. La guerra del Sudan è un perfetto esempio di crisi bellica saltuariamente mediatizzata. Il conflitto “classico” è quello fra il nord e il sud, che in teoria si è concluso per mezzo di un accordo di pace firmato nel 2005. Tuttavia, dal 2003 si è aperto un secondo fronte, conosciuto con il nome di Darfur, una regione che tecnicamente appartiene al nord del paese. Sul Darfur si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica e l’incriminazione del presidente del Sudan, Omar Al Bachir (o El Bachir) davanti alla Corte Penale Internazionale è diretta conseguenza proprio della forte mediatizzazione di questa crisi. Un secondo esempio di “guerre dimenticate” è la Somalia, dal momento che l’attenzione mediatica tende a concentrarsi sui fenomeni che coinvolgono anche la dimensione internazionale, come la pirateria, piuttosto che sugli episodi di belligeranza interna.

- Quali fattori determinano la ‘ribalta mediatica’ o meno di un conflitto?

R. - L’Africa nel suo complesso non è certamente al centro dell’attenzione mondiale. La realtà di alcuni paesi africani sono sconosciuti ai più. Quando un evento compare molto sui media internazionali, è probabile che ci siano dietro interessi materiali o strategici. Ad esempio, si parla molto di Zimbabwe, specialmente sulla stampa anglosassone, perché in Inghilterra è molto forte la lobby che rappresenta gli ex-coloni inglesi, penalizzati dagli ultimi avvenimenti politici di Harare. Di conseguenza, le turbolenze registrate nel paese africano, pur gravi, sono state in parte “ingigantite”. Ugualmente, la regione sudanese, ovvero la fascia a sud del Sahara, ha attirato l’opinione pubblica, soprattutto durante l’amministrazione Bush, perché è stato uno dei teatri di guerra della battaglia globale al terrorismo di matrice islamica, che in quest’area si contrapponeva all’Islam politico. Ancor più grave della non mediatizzazione di una guerra è, a mio avviso, il fatto che non ci sia un’informazione sistematica sulle vicende, anche positive, dell’Africa. Una conoscenza delle sue problematiche, delle culture, dei processi costituzionali, senza aspettare necessariamente l’emergenza, il colpo di Stato o la guerra. Quello che si sa dell’Africa è ben poco. In generale poi, la capacità dell’opinione pubblica mondiale di influire sulla realtà della periferia del mondo sta diminuendo drasticamente. Si registra una sorta di connivenza che tollera forme di repressione e di violenza nei confronti dei popoli e dei paesi che non appartengono al centro del sistema.

D. - Si possono individuare delle cause che accomunano i principali conflitti africani?

R. - Innanzitutto, la debolezza che potrei definire strutturale delle istituzioni politiche. Tipico dei sistemi africani è il cosiddetto “quasi-Stato”, ovvero un sistema che non riesce a far fronte alle problematiche del territorio. Di conseguenza, sebbene si siano fatti molti progressi in direzione della democratizzazione, esiste una tendenza a ricorrere alla violenza per risolvere i contrasti. Questo spiega perché, paradossalmente, spesso le crisi si acuiscono in coincidenza delle elezioni. Generalmente, la competizione elettorale è caratterizzata da una condizione di ineguaglianza fra la forza al potere e le forze di opposizione, sia dal punto di vista del monopolio dei mezzi di comunicazione sia, soprattutto, dal punto di vista della proprietà dei beni, spesso in mano alla classe dirigenziale uscente. A parte la facilità nel ricorso alla violenza, un altro fattore scatenante le crisi africane è il fatto che sin dall’indipendenza, in generale, lo Stato africano non ha mai goduto del monopolio legale della violenza, intesa come sovranità verso l’esterno e quale uso legale della forza all’interno per la tutela delle Istituzioni, che è una delle caratteristiche fondanti dello Stato in quanto tale. In Africa, invece, l’uso della violenza è stato appannaggio di altre forme di “sub-sovranità”. Tale caratteristica, naturalmente, rende più facile che altrove il progressivo scivolamento di un contrasto politico, in una crisi a sfondo bellico. Il 90 % dei conflitti africani sono guerre “infra-statuali”, civili, domestiche, che si svolgono fra competitori interni. Anche quando ci siano interferenze di Stati “occidentali” o di paesi africani confinanti – come è il caso della guerra in Congo – gli scontri hanno sempre come obiettivo originario la conquista del potere interno. Forse l’unico esempio di guerra “inter-statale” è la guerra combattuta tra Etiopia ed Eritrea dal 1998 al 2000. Spesso, poi, alle guerre africane si associa l’aggettivo “tribale”, perché, sebbene l’elemento tribale sia spesso esterno alle cause originarie della crisi, tuttavia esso diventa quasi sempre rilevante in una fase del conflitto. L’appartenenza ad un medesimo gruppo è uno strumento utile, ad esempio, dal punto di vista della mobilitazione e della creazione del consenso alla propria causa. Infine, altra pratica diffusa nei sistemi africani è il “neo-patrimonialismo”, ovvero la tendenza dello Stato a gestire le risorse pubbliche non a favore della popolazione, ma a favore della classe dirigente. È chiaro come questo susciti facilmente frustrazione e ribellismo. A queste motivazioni interne a volte si sovrappongono, poi, gli interessi delle Potenze esterne, che si coalizzano con una delle due parti. Da questo punto di vista, il pericolo è che si trovi soluzione solo ad una delle varie dimensioni del conflitto - come è avvenuto in Angola nel 1988, quando si è trovato un accordo sulle questioni internazionali, ma non sulle problematiche interne, ovvero sui rapporti tra governo e ribelli. Questo è uno dei motivi per cui spesso le turbolenze continuano, anche dopo la pacificazione ufficiale.

D. - In che modo le ingenti risorse del continente africano e i traffici internazionali, spesso illegali come nel caso del contrabbando delle armi, intervengono nell’economia di guerra che alimenta il conflitto interno?

R. - Il problema delle ricchezze del continente ha due facce. Da una parte le risorse sono una delle poste in gioco nel conflitto, a cui si può accedere legalmente – attraverso l’ascesa all’arena politica – o illegalmente, perché durante la guerra cresce la possibilità di occupare le zone produttrici di risorse e di aumentare i traffici illeciti - anche detti informali - di beni, di armi o di droghe. È il caso, ad esempio, dei diamanti e delle altre miniere del Congo. In un certo senso le risorse “attivano” la guerra, perché danno la possibilità di raccogliere fondi per poter acquistare armi e reclutare soldati. La dimensione internazionale è certamente coinvolta. Le potenze straniere che ambiscono a monopolizzare le risorse o i mercati africani saranno certamente tentate di intervenire in difesa di quella classe dirigente, in grado di assicurare loro diritti di sfruttamento o spazi di commercio nei mercati locali. Si è anche detto che la guerra abbia una propria economia perversa, perché facilita i traffici informali, diventando in sé fonte di risorse. In alcuni casi gli stessi aiuti internazionali sono stati involontariamente cause guerra, perché costituivano la principale risorsa di un paese, sulla quale si sono concentrate le ambizioni dei governi e dei ribelli.

D. - Diversi interventi delle Organizzazioni Internazionali nei conflitti africani hanno fallito nel tentativo di ristabilire un clima di pace. Quali sono stati i principali errori commessi?

R. - Bisogna intanto chiedersi quali obiettivi avesse l’intervento. Quasi sempre le Grandi Potenze che gestiscono gli interventi internazionali, anche sotto la debole copertura di organismi sovranazionali come le Nazioni Unite o l’Unione Africana, hanno in realtà degli obiettivi propri. E difficilmente gli interessi del paese in guerra coincidono con quelli internazionali. Nella risoluzione dei conflitti è necessario risalire alla causa originaria, possibilmente essere neutrali, non avere secondi fini e avere una certa capacità di persuasione morale sui contendenti. Queste qualità oggi mancano persino all’Onu, che purtroppo ha perso credibilità (…) L’Onu ha perso la sua autorità sui paesi belligeranti, proprio perché in passato la sua neutralità originaria è stata sacrificata in nome della difesa di interessi di parte. Di conseguenza, gli stessi strumenti attivati per risolvere i conflitti sono risultati spesso inadeguati. Un caso riuscito di risoluzione è quello del Mozambico, un episodio lusinghiero per la politica italiana anche perché il negoziato è stato mediato in parte dalla Comunità di S. Egidio, in parte dal Ministero degli Esteri italiano. Il successo di questo conflitto è riconducibile alla decisione di procedere al disarmo ancor prima di avviare la normalizzazione politica. È un raro caso positivo, da prendere ad esempio.

D. - Negli ultimi decenni gli Stati africani si sono dotati di una serie di organismi regionali sovranazionali. Si può guardare a tali strumenti come a un mezzo efficace per arginare i fenomeni di violenza diffusi sul continente?

R. - Il principale organismo inter-africano, l’Unione Africana, è un’istituzione ancora relativamente giovane (ha preso vita fra il 2002 e il 2003, sulle spoglie dell’OUA, l’Organizzazione dell’Unione Africana) per cui non si può ancora valutare appieno la sua esperienza. Tuttavia, possiamo sottolineare che, nello Statuto dell’UA, trova riconoscimento il diritto all’ingerenza negli affari interni degli Stati membri, cosa che dovrebbe distinguerla e renderla più efficace della precedente OUA. Inoltre, l’UA è dotata di un organo interno, il Consiglio per la Pace e la Sicurezza, pensato ad hoc per intervenire, per mezzo di sanzioni o altre misure politiche, nella gestione pratica delle emergenze, nelle situazioni di belligeranza e di violazione dei diritti umani. Quindi, nella sua impostazione, questa istituzione panafricana ha tutti gli strumenti per risolvere i conflitti africani. I risultati non sono mancati: la mediazione dell’UA è stata efficace in Burundi, in Costa d’Avorio e in Congo. Le missioni in Somalia e in Sudan non sono riuscite, invece, nell’opera di pacificazione tra le parti in conflitto. C’è da dire che nella Repubblica democratica del Congo si registra un tentativo di “ri-costituzionalizzazione” del sistema politico interno, stravolto dalla guerra. Se un domani questo paese riuscisse a ristabilire la sua unità e la sua capacità di influenza politica anche all’esterno, allora ci sarebbero tre poli di riferimento sulla scena africana - il Sudafrica, la Nigeria e lo stesso Congo - in grado, forse, di garantire maggiore operatività agli organi dell’UA e, di riflesso, un certo equilibrio al continente.

D. - Come può la Comunità Internazionale intervenire per contribuire a risollevare i sistemi politici e le economie africane?

R. - La premessa è che si perseguano i valori di pace, di riconciliazione e di ricostruzione, essenziali allo sviluppo del continente. Le potenze europee dovrebbero adottare politiche che consentano all’Africa, ai suoi prodotti, alle sue istituzioni, alle sue popolazioni, di inserirsi nel sistema mondiale partendo, almeno tendenzialmente, da una condizione di parità e di uguaglianza. A oggi l’Africa è, invece, tenuta in una condizione di subalternità paternalistica dalla Comunità Internazionale, a tutti i livelli. È inevitabile che l’Africa sia beneficiaria di flussi finanziari perché da sola non è in grado di accumulare capitale e surplus da destinare agli investimenti. Ma, invece di concentrare l’intervento di sostegno all’Africa sui cosiddetti aiuti economici - il cui impatto è, come noto, ambiguo e incerto, a volte addirittura dannoso o nullo - a mio avviso sarebbe molto più utile operare sul commercio e riformare tutte quelle regole che ostacolano i paesi svantaggiati, nella libertà degli scambi. In primo luogo, abolendo le sovvenzioni sui beni alimentari, che impediscono l’accesso ai prodotti africani sul mercato internazionale. Si dovrebbe poi riaprire la strada agli investimenti e a forme di partecipazione economica. Tutto questo, naturalmente, comporta un’assunzione di responsabilità anche da parte dell’Africa, che deve garantire un certo grado di stabilità e sicurezza, assenza di corruzione e capacità di ritorno economico, se gli investitori sono soggetti privati. Questo si sta realizzando già con la cosiddetta cooperazione sud-sud. La Cina, l’India, il Brasile e alcuni paesi del Golfo stanno operando in Africa soprattutto nel settore delle infrastrutture, partendo da un’impostazione totalmente diversa da quella occidentale.

D. - Il mandato di arresto emanato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del Presidente Omar Al-Bashir è stato rifiutato dallo stesso Presidente sudanese come episodio di ingerenza delle Potenze straniere nelle questioni nazionali. Cosa pensa al riguardo?

R. - In generale, la giustizia ha senso quando è neutrale e uguale per tutti. La giustizia internazionale non è né equa né neutrale. Il fatto che la giustizia internazionale si sia concentrata solo su determinati casi africani, ha fornito le giuste argomentazioni per un’autodifesa a coloro che sono stati accusati dalla Corte. Una seconda considerazione da tener presente è che la giustizia africana di tipo “tradizionale” tende a riconoscere una maggiore importanza al ripristino della coesione sociale e alla riconciliazione tra diversi villaggi, che non all’individuazione dei colpevoli e alla punizione individuale. Non è certo che la giustizia formalizzata, su cui si basa il Tribunale dell’Aja, costituisca lo strumento migliore per la risoluzione delle diverse crisi africane, in quanto tale approccio giuridico romanistico-occidentale rischia di non tenere conto, sufficientemente, delle caratteristiche specifiche del contesto. Tuttavia, non si deve dimenticare che anche le forme improprie, e certamente discutibili, di giustizia internazionale, hanno comunque il merito di cercare di difendere tutti gli africani che sono stati vittime di crimini. Questo dovrebbe essere tenuto maggiormente in considerazione dagli stessi africani.








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