Non esiste un diritto a morire: commento dopo la sentenza del Tar sul fine vita
Il Tar del Lazio ha dichiarato “inammissibile per difetto di giurisdizione” il ricorso
contro le disposizioni del ministro della Salute alle strutture sanitarie per salvare
la vita di Eluana Englaro. E, tuttavia, sostiene nella sentenza che ai malati in stato
vegetativo si possono sospendere l’alimentazione e l’idratazione, teorizzando di fatto
un “diritto a morire”. Sulle posizioni espresse dai giudici amministrativi del Lazio,
Alessandro Gisotti ha intervistato il prof. Lucio Romano, presidente
di “Scienza e Vita”:
R. – L’equivoco
di fondo è che si parli di trattamenti sanitari. L’alimentazione e l’idratazione artificiale
non possono essere assolutamente considerati come dei trattamenti - ovvero delle terapie
- ma sono essenzialmente dei mezzi di sostegno vitale. Se noi dovessimo considerarle
come delle terapie, alimentazione e idratazione svolgerebbero quindi un’azione terapeutica.
La domanda che allora ci dovremmo porre è: qual è la malattia che alimentazione e
idratazione vanno a curare? Di conseguenza, se una malattia è curabile - quindi trattabile
con un’azione terapeutica svolta dall’alimentazione e dall’idratazione, per quanto
artificiale - ciò vorrebbe dire che una volta che si è guariti dalla malattia stessa
dovremmo sospendere, per paradosso, la terapia di alimentazione e idratazione. Il
Tar richiama però anche la Convenzione dell’Onu sulle persone disabili. Bene, se vogliamo
richiamarla in toto questa Convenzione, è opportuno ricordare come all’articolo 25
comma F si dica testualmente che “gli Stati devono prevenire il rifiuto discriminatorio
di assistenza medica o di prestazione di cure e di servizi sanitari o di cibo e liquidi
in ragione della disabilità”. Detto in altri termini, la Convenzione sottolinea appunto
che il cibo e i liquidi non possono assolutamente essere sospesi in un soggetto che
venga ritenuto disabile.
D. – In questa sentenza
del Tar si teorizza un “diritto a morire”, la possibilità del rifiuto della nutrizione
e dell’idratazione…
R. – Nella Costituzione italiana,
nel comune sentire, nella riflessione etica dell’attività medica, nell’attività assistenziale
di presa in carico delle persone non esiste alcun diritto a morire. E’ di rango istituzionale
il diritto a vivere, il riconoscimento della possibilità di poter vivere senza ricorrere
evidentemente ad un accanimento terapeutico; alimentazione ed idratazione non possono
essere assolutamente forme di accanimento terapeutico. In sintesi potremmo dire che
non solo non c’è un diritto a morire, ma non c’è un principio assoluto di autodeterminazione.
Bisogna anche ricordare che lo stesso codice deontologico dei medici, all’articolo
3, tra i doveri principali richiama quello del dovere del medico alla tutela della
vita, della salute fisica e psichica dell’uomo.
D.
– Questa sentenza del Tar pone ancora una volta l’accento sulla necessità di una legge
da parte del Parlamento sul fine vita…
R. – E’ nel
potere del Parlamento non solo prendersi l’incarico di temi estremamente delicati
cosiddetti “eticamente sensibili”, ma anche di legiferare in merito. E’ quanto mai
opportuno che il Parlamento discuta adesso alla Camera nella maniera più adeguata
e che soprattutto non venga meno a quelli che sono i capisaldi della legge che poi
è stata approvata al Senato: il no all’alimentazione e all’idratazione artificiale
nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, la non vincolatività del medico per
quanto riguarda le dichiarazioni stesse. Non dimentichiamo che c’è l’articolo 2 della
Costituzione italiana che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e
fra questi diritti c’è sicuramente il diritto alla vita.