Storie di calcio e di solidarietà alla settima edizione dell'"Homeless World Cup",
in corso a Milano. Intervista con Alessandro Dell'Orto
Difendere i colori del proprio Paese giocando a calcio, anche se si è lontani dalla
patria, senza pià casa Nè radici. E' quanto accade alla "Homeless World Cup", manifestazione
che unisce il cosiddetto "calcio da strada" ai temi della solidarietà. Ieri, a Milano,
è iniziata la settima edizione di un torneo mondiale che riunisce 48 nazioni e 500
calciatori. Le regole sono quelle dello "street soccer" - 4 contro 4 e due tempi da
7 minuti - ma è il senso di umanità che accompagna e segue le gare il vero protagonista
del Mondiale dei senza dimora. Fabio Colagrande ne ha parlato con Alessandro
Dell'Orto, presidente di Milano Myland, associazione sportiva che cura l'organizzazione
dell'evento:
R. - Sono
“homeless”, quindi senza dimora, dove il termine “senza dimora” però non è un termine
specifico - come lo intendiamo in Italia - e neanche così tanto stereotipato, in quanto
in ogni parte del mondo le associazioni che partecipano e le squadre che vengono invitate
gestiscono un problema dei senza tetto. C’è chi si occupa dei rifugiati politici -
quindi senza tetto per motivi di fede religiosa o di credo politico - chi difende
coloro che hanno “perso la strada”, come diciamo noi - per alcool o droga e stanno
quindi cercando di riabilitarsi, o hanno perso la famiglia - e chi invece ha proprio
perso la casa e vive in situazioni disagiate tutti i giorni, anche in seguito a cause
naturali. Proprio rifacendoci a quest’ultimo punto, quest’anno abbiamo invitato dei
membri dei campi profughi dell’Abruzzo.
D. - Una
caratteristica di questo torneo è anche la composizione della squadra italiana. Al
suo interno non ci sono solo giocatori italiani, mi pare anzi che gli italiani siano
pochissimi…
R. - La caratteristica del progetto che
ha fatto si che l’Italia partecipasse è un progetto che si occupava di diritto allo
sport per gli immigrati. La cosa più importante è quella dell’integrazione, dove la
nostra nazionale non veste la maglia di una sola nazione ma esprime la convivialità
e l’integrazione che ci può essere attraverso il mondo dello sport.
D.
- Siamo alla settima edizione di questo torneo e fin qui i dati parlano di un 70 per
cento dei giocatori che è riuscito a cambiare la propria vita e addirittura del 93
per cento che ha tratto qualcosa di positivo dall’impatto con la Homeless World Cup…
R.
- La Homeless World Cup è una manifestazione molto seria, dove ogni anno viene stilato
un rapporto finale nel quale si determina qual è il risultato. Dal 2007, il risultato
è stato questo: il 70 per cento delle persone ha cambiato radicalmente il proprio
stile di vita e il 93 ha avuto una motivazione forte per riprendere in mano la propria
vita, per avere nuovi stimoli. E’ questo il nostro risultato più grande. Ad un giocatore
di calcio cui non sono state date delle possibilità noi diamo proprio al possibilità
di realizzare un sogno: giocare per la propria nazionale, scendere in campo, vestire
quella maglia, cantare l’inno ed essere rappresentanti ed ambasciatori della propria
nazione. (Montaggio a cura di Maria Brigini)