"Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito”.
Con questa immagine Cormac McCarty squarcia il paesaggio iniziale del suo fortunato
romanzo "The Road" e vi deposita i due protagonisti. Un padre ed un figlio, entrambi
senza nome, vagano per una terra devastata e abbrutita da una apocalisse anch’essa
senza nome, di cui non si conosce dunque l’origine e il motivo. Solo le conseguenze:
“I minuti della terra, continua lo scrittore, scanditi nel silenzio, le sue ore, i
giorni, gli anni senza sosta”. Anni senza speranza, anni senza futuro. Fedelmente
trasponendo le pagine sullo schermo, il regista australiano John Hillcoat riproduce
questa tragica, assurda desolazione, la disperazione del volto, l’assurdità della
vita ridotta a brandelli di logicità. Oltre i simbolismi e le metafore, "La Strada"
è la rappresentazione tragica del male sociale di cui l’uomo è causa e vittima contemporaneamente.
Viggo Mortensen è il padre che cerca di condurre il figlio fino al bordo del mare
come se quella massa grigia potesse gridare: "Sì, la vita c’è, il domani anche". Ma
le strade che percorrono dicono il contrario: quella poca umanità sopravvissuta è
affamata e la fame genera mostri, genera cannibali. Spietato il libro, spietato il
film: crudo, secco, dirompente e assoluto nella sua sintesi tragica. L’umanità ha
perso la traccia di se stessa e la traccia di Dio, che non si nomina, non si sente,
non si prega: le mani congiunte, un gesto dal vago ricordo, sono per ringraziare chi
ha lasciato disgraziatamente ad altri un poco di cibo e un giorno in più di vita che
non è più tale. Comprensibilmente, il grigiore del panorama disfatto entra nell’anima
dei due personaggi e da lì trasmigra in quel sentimento di vuoto, repulsione, paura
che giustamente ghermisce lo spettatore. E’ una riflessione amarissima, che solo tenuamente
si apre al sorriso, forse inutile, del finale. Ed è cinema che sa, nel poco e nel
silenzio, dire moltissimo. (Da Venezia, Luca Pellegrini)