La dimensione spirituale della persona alla base di un autentico sviluppo: il commento
di Riccardo Moro sulla Caritas in veritate
“Se l’uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità”, se “non avesse una natura
destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento
o di evoluzione ma non di sviluppo”: è uno dei passaggi dell’Enciclica “Caritas in
veritate”. Il Papa sottolinea dunque che non c’è sviluppo autentico se si nega la
dimensione spirituale della persona. Dio, infatti, scrive Benedetto XVI, “è il garante
del vero sviluppo dell’uomo” poiché avendolo creato a sua immagine “ne alimenta il
costitutivo anelito ad essere di più”. Su questa visione dello sviluppo umano
delineata nell’Enciclica, Alessandro Gisotti ha intervistato l’economista Riccardo
Moro, direttore della Fondazione Giustizia e Solidarietà della Cei:
R. – Nel
momento in cui noi immaginiamo lo sviluppo come una successione quasi meccanica e
automatica di fasi, noi sostanzialmente equipariamo l’uomo ad una sorta di macchina.
Nel momento in cui l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, ma anche secondo altre
prospettive e concezioni religiose, in ogni caso l’uomo è un essere vivente che in
qualche modo partecipa di una vita che la dimensione della divinità gli offre, alla
quale la dimensione della divinità lo chiama, con una serie di talenti complessivi.
Allora, in questo senso, lo sviluppo è il risultato della interazione di questi talenti
tra le persone, che offre sempre dei risultati nuovi. D. -
Il fondamentalismo religioso, scrive il Papa, come il terrorismo, e in definitiva
la negazione della libertà religiosa, contrastano lo sviluppo autentico della persona
e dei popoli: un richiamo quanto mai attuale, pensando anche alla cronaca quotidiana,
alla situazione in tanti Paesi, dall’Iraq al Pakistan… R. –
Certo, se educare all’ateismo comportava una negazione della persona umana, della
sua complessità, analogamente la degenerazione opposta del fondamentalismo religioso,
per cui la persona non ha più la sua libertà personale, ma deve aderire ad un sistema
di regole, di comportamenti, definiti da altri, non può che sterilizzare, inibire
le capacità che gli uomini hanno di interagire tra di loro e di creare cose nuove.
D. – L’uomo non è una macchina. E’ possibile, dunque, auspicabile,
che si guardi all’economia non solo con parametri meramente produttivistici. Questa
crisi che è all’inizio della sua conclusione potrebbe aiutare anche a ripensare il
modello di sviluppo? R. – La crisi finanziaria è sicuramente
un’occasione. Esiste un dibattito da questo punto di vista per riflettere sulle ragioni
di quella crisi che molti interpretano anche come una mancanza di etica. Ora, la questione
dell’etica nell’economia non è una questione di discorsi retorici o romantici o moralistici,
è una questione molto precisa: nel momento in cui le relazioni commerciali e finanziarie,
e più generalmente economiche, non guardano, oltre che all’interesse della mia parte,
al bene comune, cioè all’interesse anche dell’altro, a che cosa capita nel contesto
in cui io opero, in ragione delle scelte che percorro, il rischio è che succeda quello
che è capitato nel sistema finanziario. Allora, nel momento in cui io siglo un contratto
non devo pensare solo a quanto guadagnerò io, ma devo guardare anche a cosa capita
nel contesto, e questa è un’assunzione etica. Dire che ci vuole etica nell’economia
significa esattamente dire questo, che dobbiamo porci il problema di quali sono le
conseguenze delle nostre scelte, dei nostri contratti, delle nostre firme sul contesto
generale. Senza questa attenzione, io perseguo l’interesse e lo ottengo nel breve
periodo, ma nel medio e lungo periodo incontro dei problemi gravi esattamente come
quelli che si sono determinati.