La drammatica condizione degli sfollati del Kivu: con noi, Francesca Fontanini dell'Acnur
Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha espresso apprezzamento per l'importante
incontro dei giorni scorsi, a Goma, tra il presidente rwandese Kagame e il suo omologo
congolese Kabila. Per Ban Ki-moon si tratta di un passo fondamentale per riportare
la pace nella regione. Un obiettivo quanto mai urgente: migliaia di congolesi, infatti,
stanno fuggendo, impauriti e sottoposti a violenze e soprusi, nella regione orientale
della Repubblica Democratica del Congo. Dopo il Nord anche il Sud Kivu è purtroppo
diventato scenario della guerra che il governo ha iniziato contro i guerriglieri delle
Forze democratiche di Liberazione del Rwanda. Valutare il numero delle vittime e portare
soccorsi è molto difficile. Per una testimonianza su questo drammatico movimento di
massa, Gabriella Ceraso ha intervistato Francesca Fontanini, portavoce
dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) nell’area:
R. – Nel
Nord Kivu già avevamo assistito ad un movimento di circa 400 mila persone dall’inizio
dell’anno, mentre nel Sud Kivu, già negli ultimi tre mesi, abbiamo registrato un movimento
di circa 120 mila persone. Abbiamo problemi di logistica e anche di sicurezza che
non ci permettono di raggiungere i diversi territori della regione del Sud Kivu. Quindi,
il numero delle vittime di questi conflitti può essere maggiore. D.
– Come avvengono questi spostamenti? R. – Le persone si spostano
per precauzione; in più, lasciano le proprie case durante la notte e poi ritornano
durante il giorno per proteggere i loro campi, perché la maggior parte di queste popolazioni
vive di rendimento agricolo. D. – Voi denunciate gravi violazioni
dei diritti umani. Quali? R. – Gli stessi sfollati ci hanno
riportato casi di violenza sessuale, casi di detenzioni irregolari, tasse che devono
pagare illegalmente sia alle forze ribelli sia alle forze della Repubblica Democratica
del Congo e c’è un alto tasso di impunità. D. – Esigenze immediate? R.
– Le necessità sono cibo, aiuto alle persone vittime di violenza sessuale, interventi
in materia di salute e per assicurare un rifugio. D. – Le persone
che riuscite a soccorrere, come vivono, quali sono le loro prospettive? R.
– Le prospettive al momento non sono positive, perché si tratta anche di persone che
hanno paura di rivivere certe terribili esperienze che hanno già sperimentato nel
passato. E in più, non hanno molta fiducia verso le autorità statali perché in queste
zone mancano tribunali, corti dove loro eventualmente possano fare appello … Per questo
sono al momento, purtroppo, molto dipendenti dall’aiuto internazionale. Diciamo che
ci sarebbe bisogno dello Stato. Vivono in costante paura e non vedono via d’uscita
a breve termine.