Don Ciotti: don Peppino Diana, martire della giustizia
“Se sono stato causa di amarezza o ritenete che abbia offeso la memoria di vostro
figlio, vi chiedo scusa”. Così Gaetano Pecorella, presidente della Commissione Ecomafie
dopo le polemiche seguite ad alcune sue dichiarazioni su don Peppino Diana, il sacerdote
ucciso dalla camorra quindici anni fa a Casal di Principe. Pecorella ha comunque parlato
di “travisamenti e speculazioni politiche”. E don Luigi Ciotti, da anni impegnato
nella lotta alla mafia, ieri ha pregato sulla tomba di don Peppino facendo visita
ai genitori di colui che ha definito: “un martire della giustizia”. Massimiliano
Menichetti lo ha intervistato:
R. – Io tutte
le volte che passo da queste parti vado a casa di don Peppe Diana a incontrare Jolanda
e Gennaro. Sono andato a dirgli che il loro figlio, come Giovanni Paolo II disse parlando
delle vittime delle mafie, è “martire di giustizia”. Ho ricordato che il loro figlio
è stato testimonianza di verità che non può essere negata e taciuta, una testimonianza
cristiana per illuminare le coscienze ad assumersi una maggiore responsabilità civile.
Don Peppino Diana è stato ucciso, lo ha testimoniato anche un collaboratore di giustizia,
quello che gli ha sparato per il suo coraggio, perché disturbava per le sue parole
chiare e determinate ai clan. Proprio alla sua gente lui aveva detto pochi giorni
prima: “La camorra ha assassinato il nostro Paese, noi la si deve far risorgere, bisogna
risalire sui tetti a riannunciare la Parola di vita”. D. - Sei
andato anche a Castel Volturno, dove sorgerà la Cooperativa “Le terre di don Peppe
Diana - Libera Terra”. Cos’è questa realtà? R. – Sulla tomba
di don Peppino c’è scritto: “Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia
e di pace”. Sui beni confiscati ai clan della camorra stanno nascendo delle cooperative.
La prima cooperativa si chiama proprio “Le terre di don Peppe Diana”. “Cooperative”
vuol dire con un bando pubblico e poi lavoro vero per i giovani di questa terra. Questa
è la grande scommessa: la dimensione educativa. La sfida culturale è inventarci il
lavoro. D. - “La mafia - ripeti spesso - si può sconfiggere”.
Cosa bisogna fare per realizzare questo obiettivo? R. – Ognuno
deve assumersi di più la propria parte di responsabilità. Le mafie assassinano la
speranza: noi dobbiamo alimentarla dandoci da fare. La credibilità e l’autorevolezza
di questi progetti che si portano avanti in tutta Italia non si misurano dalla risonanza
pubblica o dall’attenzione mediatica che riescono a suscitare ma dalla capacità di
lasciare una traccia duratura nel tempo. Questi beni confiscati, il lavoro di questi
giovani - sono oltre 2.500 - che da ogni parte di Italia e del mondo vanno durante
l’estate sui campi confiscati alla mafia a impegnarsi, sono tracce durature nel tempo.
E’ quel testimone che, don Peppino diceva a don Puglisi e a tanti altri, ci hanno
consegnato.