Anno Sacerdotale: la testimonianza del cappellano del carcere di Poggioreale
Trovare il volto di Cristo nei peccatori, essere per loro una figura di misericordia
e di speranza, condividere con i detenuti situazioni di sconforto e di disagio: sono
solo alcune delle missioni portate avanti ogni giorno dai cappellani carcerari. Su
questo tema si sofferma l’odierna rubrica dedicata all’Anno Sacerdotale. Ma cosa significa
essere un cappellano carcerario? Isabella Piro lo ha chiesto a don Franco
Esposito, direttore dell’Ufficio per la Pastorale Carceraria della diocesi di
Napoli e cappellano della Casa di detenzione di Poggioreale:
R. – Anzitutto,
credo che il cappellano debba essere l’espressione della Chiesa presente in questa
realtà che non è altro che una porzione di Chiesa che vive un momento particolarmente
difficile. Come dice San Paolo, è il membro debole del corpo a cui la Chiesa deve
prestare particolare attenzione. Il cappellano, nel momento più importante della sua
presenza, che è quello della celebrazione dell’Eucaristia, ci rende presente il segno
del Cristo che è il segno della salvezza, dell’Eucaristia, però nello stesso tempo
è anche il segno di questa comunità particolare che si presenta davanti a Gesù. Quindi,
celebrare l’Eucaristia nel carcere è sentirsi concretamente un peccatore insieme con
questa comunità di peccatori che si presenta al Padre in Gesù per chiedere salvezza.
Io poi faccio pure il cappellano alle suore di clausura e veramente senti che la presenza
di Gesù è sempre quella, è la stessa, sia nel convento delle claustrali che nel padiglione
degli ergastolani. D. - Dal punto di vista umano e spirituale
cosa le insegna il contatto quotidiano con i detenuti? R. –
Insegna la grande verità del Vangelo: “Io ero in carcere e siete venuti a visitarmi”.
E’ un toccare con mano la presenza di Gesù, saperlo nella fede presente in questi
fratelli, dal punto di vista spirituale; dal punto di vista umano è essere attenti
a tutti i bisogni dei detenuti e tenere presente che il carcere non è un’isola, ma
fa parte di tutto un contesto, di una società, a cominciare dalle famiglie di ogni
detenuto. Per esempio, a Napoli noi abbiamo realizzato un’interessante iniziativa
che si chiama “La parrocchia adotta un detenuto”, cioè la parrocchia mette l’avvocato
a questo detenuto e si impegna a sostenere la famiglia; chiaramente il detenuto si
impegna a non prendere nessun aiuto dagli amici esterni, cioè le organizzazioni camorristiche.
Questo significa proprio spezzare dei legami e far sì che veramente all’interno della
comunità ecclesiale si senta l’attenzione e l’aiuto per il riscatto di queste persone. D.
– Perché ha scelto di diventare sacerdote? R. - Per rispondere
sicuramente a una chiamata misteriosa del Signore, nata proprio dal bisogno di essere
accanto a Gesù che è presente nelle realtà più povere. Forse ho scelto la parte più
semplice, più facile, quella di avere la sicurezza che accanto ai piccoli, ai poveri
a quelli che non contano, a quelli che sono i peccatori più facilmente, vivo l’esperienza
dell’incontro con Gesù. D. - Oggi sceglierebbe nuovamente questa
strada? R. – La sceglierei mille volte! D.
– Qual è, quindi, il suo augurio per questo Anno Sacerdotale in corso? R.
– Il mio augurio per tutti sacerdoti è che l’attenzione al Cristo sofferente possa
sempre farci rinnovare la nostra risposta e credo che possiamo riscoprire la radicalità
del Vangelo di cui dobbiamo assolutamente farci testimoni poi nella vita.