“Il sistematico utilizzo della violenza come un’arma, principalmente sulle donne,
è diventato di uso comune nei conflitti in Africa, Asia ed Europa”. Cosi’ il segretario
generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel suo rapporto presentato nei giorni scorsi al Consiglio
di Sicurezza. Il numero uno del Palazzo di Vetro ha inoltre rivolto un appello ai
Paesi interessati “perché rafforzino le misure protettive e di prevenzione nei confronti
del fenomeno”. Salvatore Sabatino ha intervistato Rosanna Sèstito, una
ginecologa di “Medici senza Frontiere”, appena rientrata dal Nord Kivu, in Repubblica
Democratica del Congo, dov’è stata impegnata in un progetto teso ad assistere donne
vittime di violenze. Ascoltiamo la sua testimonianza:
R. – Lo stupro
ancora oggi in molti Paesi, in troppi, viene utilizzato come una vera e propria arma
di guerra. Lo stupro non vuole tanto la morte dell’altro, ma vuole proprio sbarazzarsi
dell’origine dell’altro, arrivare al concepimento, quindi sostituendosi all’altra
collettività genetica: è un’invasione dell’identità.
D.
– C’è anche una stigmatizzazione della donna che una volta violentata non viene più
rispettata nelle società di provenienza...
D. – La
donna non viene più accettata dalla società, soprattutto se ritorna incinta e questo
è un fatto molto grave perché porta la donna a un isolamento e spesso al suicidio.
Sono molto frequenti i suicidi delle donne a causa di questo rifiuto sociale dopo
lo stupro. Per cui, la donna non solo si vede vittima di questo crimine, ma addirittura
viene rigettata dalla società. Di qui l’isolamento, la mancanza di lavoro. Molte volte
le donne sono costrette a prostituirsi e questo porta al suicidio, all’abbandono dei
bambini nati dallo stupro fino all’infanticidio.
D.
- C’è una sorta anche di rassegnazione. Le donne che abitano zone di guerra vivono
lo stupro come una sorta di cosa inevitabile...
R.
– Sì, lo vivono quasi come un “topos”, come un luogo della guerra; noi facciamo fatica
ad accettarlo, ma loro lo vivono come un evento inevitabile: con un gran senso di
colpa, perché quando ricevo le donne nei nostri progetti, la prima cosa che mi chiedono
è: perché a me? Che cosa ho fatto di male?
D. - Quali
sono i motivi che spingono alle violenze sessuali contro le donne? Ci sono anche delle
credenze popolari?
R. – Assolutamente sì, nella mia
esperienza in Liberia spesso al posto di un salario i soldati venivano retribuiti
con delle donne. In Congo, per esempio, c’è una credenza che avere dei rapporti con
ragazze prepubere o dopo la menopausa rafforza l’uomo durante i combattimenti e quindi
lo protegge dalle ferite. Oppure, vengono rapite delle donne e vengono trasformate
in vere e proprie schiave sessuali che servono appunto per tenere alto il morale delle
truppe. Possono essere utilizzate anche per trasmettere l’Aids e quindi la violenza
come arma biologica.
D. – Come si può di fatto prevenire
questo fenomeno?
R. – Sensibilizzare le donne. Per
esempio, soprattutto i campi rifugiati sono un luogo dove avvengono tantissime violenze
sessuali e noi sensibilizziamo le donne al fatto che è una cosa che può esistere.
Quindi, dire alle donne i luoghi dove possono andare e dove non possono andare. Sicuramente
la sensibilizzazione della popolazione, le campagne contro le violenze, le denunce
contro le violenze, sono una forma di prevenzione.