Nuovi attentati in Afghanistan, mons. Vincenzo Pelvi riflette sulla morte del militare
italiano e sul ruolo delle missioni di peacekeeping
Ennesima giornata di violenze in Afghanistan. Sei volontari ucraini e un bambino afghano
sono morti nello schianto di un elicottero, che portava aiuti umanitari, abbattuto
dalla guerriglia talebana nella turbolenta provincia di Halmand, dove è in corso l’offensiva
senza precedenti delle truppe statunitensi e britanniche contro le roccaforti degli
insorti islamici. A seguito dell’escalation dei combattimenti, il mese di luglio
potrebbe diventare il più sanguinoso dall’inizio dell’intervento in Afghanistan nel
2001. Gli attentati di oggi allungano la drammatica lista di vittime del terrorismo,
che sembra stritolare senza sosta l’Afghanistan. Massimiliano Menichetti ne
ha parlato con Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali,
raggiunto telefonicamente ad Herat:
R. - Esistono
diverse realtà, che si rifanno certamente al movimento originario talebano: gruppi
di signori della guerra, trafficanti di droga... Insomma, la situazione è assai più
complicata di come può sembrare da qualche migliaio di chilometri di distanza. Ma
pensare che l’Afghanistan sia un terreno di guerra generalizzato, dove tutti combattono
contro tutti, è sbagliato. Ovviamente, le zone a maggioranza pashtun, dove
i talebani hanno il loro principale bacino di reclutamento, sono quelle più a rischio.
Anche nella stessa area di Aratta vi sono delle zone dove rispetto ad altre vi è una
maggiore criticità ad operare. E’ necessario in questo Paese continuare ad operare
per ridare a chi è ormai esausto da 30 anni di guerra un minimo di possibilità di
ricostruire la propria vita.
D. - Cosa significa
parlare di stabilizzazione in Afghanistan?
R. - Significa
che il Paese deve tornare al più presto agli afghani. Vuol dire che i governi occidentali
devono investire molto di più nella ricostruzione. Maggiore supporto alle forze di
polizia, perché dovranno essere i locali a far vedere che lo Stato e non la Nato esiste
ed è presente. Occorre sempre di più formare gli afghani, affinché loro si possano
assumere le loro responsabilità nel loro Paese.
D.
- Molti governi, non soltanto in Italia, discutono sulla necessità di far rimanere
le proprie truppe in Afghanistan o meno...
R. - Bisogna
mandare certamente più soldati, ma bisogna che le varie nazioni abbiano regole comuni.
Bisogna che siano presenti in questo Paese nazioni che vogliano cooperare. Mi rendo
conto che è difficilissimo, ma lo dobbiamo fare per il dovere e il rispetto che noi
dobbiamo ai cittadini afghani. Quindi, più soldati, più soldi alla ricostruzione e
tanto e più supporto alle forze locali.
Ed è previsto
per domani il rientro in Italia della salma del caporalmaggiore, Alessandro Di Lisio,
ucciso ieri dallo scoppio che ha investito il veicolo sul quale viaggiava nella zona
di Farah, in Afghanistan. Oltre che da Benedeto XVI, ieri a Les Combes, messaggi di
cordoglio alla famiglia del giovane sono arrivati anche dal presidente italiano, Giorgio
Napolitano, e dal premier, Silvio Berlusconi. E sempre per domani è previsto anche
il rientro dei tre commilitoni feriti nell'attentato, che saranno ricoverati all'Ospedale
militare del Celio. Sulla tragedia che ieri ha colpito il contingente italiano, Luca
Collodi ha sentito l'ordinario militare per l'Italia, l'arcivescovo Vincenzo
Pelvi:
R. - Il primo
momento di grande amarezza e di grande sofferenza di tutto l'Ordinariato militare,
ma direi della Chiesa intera, ci ha spinto alla preghiera. Abbiamo celebrato la Santa
Messa per Alessandro e abbiamo anche scelto il segno del digiuno. Nello stesso tempo,
abbiamo chiesto al Signore il dono della pace e la consolazione per i familiari.
D.
- Si può morire per una missione di pace?
R. - Si
può morire per l’uomo, per la difesa della vita, per la dignità della persona. I nostri
soldati scelgono di servire l’uomo e non escludono che nel servire la vita umana ci
possa essere il paradosso evangelico realizzato concretamente: chi dona la vita per
l’uomo è disposto a donarla fino alla fine. Allora, vediamo come i nostri militari
abbiano questa grande solidarietà verso coloro che sono in una situazione di sofferenza,
di indigenza. Possiamo affermare che il mondo militare oggi è segnato da un coraggio
estremo.
D. - Papa Benedetto XVI nella sua Enciclica
Caritas in veritate parla dell’esperienza del dono, del donarsi. Questo può
essere valido anche per la vita militare, in una missione di pace?
R.
- Il Santo Padre con la lettera Enciclica veramente incoraggia ogni forma e ogni gesto
per concretizzare un’esperienza di dono. Leggerei oggi le missioni di pace non solo
come un impegno politico-istituzionale-militare: le missioni di pace aiutano quello
che il Santo Padre definisce lo sviluppo dei popoli secondo il pensiero di Dio e cioè
lo sviluppo integrale, quindi non solo economico. I nostri militari, sostenuti dal
cuore della nostra nazione, anche attraverso questi momenti di presenza in teatri
operativi aspirano a costruire l’unica grande famiglia umana. Questa lettera Enciclica
del Santo Padre, Caritas in veritate, diventa una lettura e un’impostazione
meravigliosa anche delle missioni di pace, perché nel fenomeno della globalizzazione
come ci dice il Santo Padre - che non è da intendersi unitamente processo socio-economico
- il mondo militare dà alla globalizzazione con le missioni all’estero un orientamento
culturale e veramente la diffusione del benessere con le missioni di pace va in questo
modo crescendo. I nostri militari lavorano per la pace, accettano il dialogo come
strumento e via della pace, con gli afghani o con altri popoli della terra. Penso
che la sfida non sia mettere al primo posto ciò che genera violenza, ma guardare i
nostri militari come persone dal volto amico, dal cuore ospitale.