Mons. Vegliò. La Chiesa è al fianco degli immigrati
La Chiesa, “esperta in umanità”, non può tacere di fronte alle tragedie dell’emigrazione,
volontaria o forzata. Alla luce del messaggio cristiano, tutela la dignità della persona
umana e incoraggia lo spirito di accoglienza e di solidarietà. Lo afferma - ai nostri
microfoni - l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, che, dal febbraio scorso, è
presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e Itineranti. Proprio
ieri, all'Angelus, il Papa ha ribadito che è "doverosa" l'accoglienza dei rifugiati.
Dal canto suo, mons.Vegliò riafferma che gli Stati devono gestire e regolare
l’immigrazione rispettando la dignità umana e le Convenzioni internazionali e mette
in guardia dal considerare i migranti responsabili delle crisi sociali e delle nuove
paure collettive. L’intervista con mons. Vegliò è di Fabio Colagrande:
R.
- La Chiesa è sempre stata al fianco dei migranti, soprattutto dove i flussi migratori
fanno maggiormente emergere situazioni drammatiche e, talvolta, anche nuove schiavitù.
Basti pensare, ad esempio, che la voce della Chiesa oggi, mediante gli interventi
dei vescovi e la sollecitudine di un gran numero di Operatori pastorali – sacerdoti,
religiosi, religiose e laici – si leva con forza in Nord America, dove ogni anno si
calcola un arrivo di circa un milione e mezzo di persone, provenienti soprattutto
dai Paesi dell’America Latina e da quella Centrale. Ma la Chiesa non manca di farsi
sentire anche in Europa, che ogni anno riceve ottocento mila nuovi immigrati, e in
Oceania, dove se ne stimano novanta mila all’anno. Senza dimenticare che gli attuali
flussi migratori non si svolgono solo sulle direttive da Sud verso Nord, ma anche
sulla traiettoria Sud-Sud, cioè tra Paesi poveri, coinvolgendo soprattutto i Paesi
dell’Africa sub-sahariana. Bisogna poi tener conto che le donne costituiscono il 49%
di tutti i migranti nel mondo e nei Paesi sviluppati sono più numerose degli uomini.
Questi sono i numeri che tutti conoscono, mentre poco si fa riferimento ai 30-40 milioni
circa di irregolari e ai 600-800 mila decessi nelle fasi di spostamento. Di fronte
a questo fenomeno la Chiesa mostra una speciale sollecitudine pastorale, perché vi
legge non solo dati statistici, ma la presenza di donne e uomini, anziani e bambini.
Come potrebbe tacere la Chiesa, che è “esperta in umanità” secondo la bella definizione
di Paolo VI, di fronte alle tragedie dell’emigrazione, volontaria o forzata? Soltanto
come esempio, ricordo che la rassegna stampa “Fortress Europe” dal 1988 documenta
il numero di potenziali migranti naufragati o vittime alle frontiere dell’Europa e
ha contato fino ad oggi ben 14.660 morti, di cui 6.327 dispersi. La Chiesa, perciò,
anzitutto tutela e promuove la dignità della persona umana, a prescindere dal suo
status giuridico, regolare o irregolare. Nello stesso tempo, essa incoraggia lo spirito
di accoglienza e di solidarietà della società di arrivo, anche alla luce del messaggio
cristiano. Tutto ciò si confronta oggi anche con ambiti particolarmente difficili,
dove è in forte aumento la valenza multiculturale e multireligiosa. La Chiesa, dunque,
si trova ad affrontare molte sfide. La sfida sociale, anzitutto: la Chiesa è impegnata
nella soluzione di problemi come la carenza di alloggi, la mancanza di risorse alimentari
e di strutture assistenziali, il fenomeno della irregolarità, il traffico di esseri
umani e lo sfruttamento, in particolare di donne e bambini. Poi, a livello religioso
e pastorale, data la molteplicità e la frammentarietà dei gruppi etnici, non è certo
facile assicurare una adeguata assistenza religiosa specifica, che tenga conto anche
della lingua e del patrimonio di fede degli immigrati. Si aggiunga il problema dell’educazione
religiosa dei loro figli, nonché la carenza di strutture pastorali che rispondano
alle loro legittime esigenze. E questo perché la Chiesa è convinta che l’integrazione
sia necessaria e indispensabile, per favorire il benessere di tutti, nella salvaguardia
della legalità e della sicurezza.
D. - Nella sua omelia
per la Festa dei popoli, dello scorso 17 maggio, lei ha invitato la comunità cristiana,
i responsabili della politica, dell’informazione e tutta la cittadinanza a guardare
con occhi diversi i migranti. Suggerisce un cambio di atteggiamento?
R.
- È sotto gli occhi di tutti che oggi viviamo l’epoca della globalizzazione. Ma questa
mette in luce un paradosso sconcertante: da una parte accelera la libertà di trasferimento
di beni e capitali, ma dall’altra ostacola i movimenti delle persone, mettendo a repentaglio
quel diritto fondamentale dell’uomo che è la libertà di movimento. La cultura del
mercato applicata ai capitali funziona molto bene, ma quando si rivolge ai movimenti
delle persone si inceppa e si parla di espulsioni, razionamento degli ingressi e respingimenti.
Dunque, mentre è legittimo ribadire il diritto degli Stati a gestire e regolare
l’immigrazione, bisogna anche precisare che – nel rispetto della giustizia senza dimenticare
la solidarietà e in modo tale da coniugare saggiamente legalità e accoglienza. Ogni
Stato deve prevedere misure chiare e fattibili per regolare gli ingressi nel proprio
Paese, deve vegliare sul mercato del lavoro – soprattutto per contrastare coloro che
sfruttano il lavoro nero e non le vittime di tale fenomeno – con l’impegno positivo
a promuovere iniziative di integrazione e tutte quelle forme di convivenza sociale,
culturale e religiosa che ogni società plurale esige. In ogni caso, quando lo Stato
deve esercitare il proprio dovere-diritto di garantire la legalità – reprimendo la
criminalità e la delinquenza e gestendo le centinaia di migliaia di persone in situazione
irregolare – lo deve sempre fare nel rispetto della dignità umana e delle Convenzioni
internazionali. Purtroppo, a volte, nei Paesi a sviluppo avanzato si manifesta una
tipica sindrome, secondo la quale i “ricchi” si difendono dai “poveri” cercando di
ridurre o di ostacolare i loro spostamenti. Così si va diffondendo una nuova retorica
a livello culturale, che vede i migranti come responsabili delle crisi sociali e delle
nuove paure collettive e, non di rado, anche come minaccia alla salvaguardia delle
identità nazionali.
D. - L’aumento dell’immigrazione
crea sempre più comunità interetniche. Come guarda la Chiesa questo fenomeno? Non
c’è il rischio che le identità culturali e religiose più radicate sul territorio si
disperdano?
R. - Molti Paesi sono diventati multietnici
da molto tempo. Soprattutto nei grandi agglomerati urbani, oggi si tende a parlare
non più di "melting pot", come nella società americana della prima metà del secolo
scorso, ma – come giustamente lei ha detto – di comunità interetniche, che cioè interagiscono
con reciproco vantaggio, soprattutto nello scambio e nell’arricchimento dei valori.
Per tale ragione, a partire dalla positiva esperienza di vari contesti nordamericani,
la Chiesa, accanto alle tradizionali strutture dell’assistenza pastorale (vale a dire
parrocchie personali, cappellanie e missioni con cura d’anime) ha dato vita a strutture
pastorali “plurietniche” o “multiculturali”, in grado di rispondere meglio alla dimensione
integrativa e comunitaria dei gruppi di fedeli di diversa provenienza. Così le diverse
identità culturali non solo si conservano, ma contribuiscono anche al reciproco arricchimento,
con approfondimento pure dei valori, senza ingenuamente nascondere che vi sono anche
conflitti e tensioni da affrontare e superare. Certo, è un discorso maggiormente delicato
quello che tocca l’immigrazione di persone che professano un diverso credo religioso.
Ad esempio, l’immigrazione musulmana nei Paesi tradizionalmente cristiani pone tutta
una serie di sfide culturali e di integrazione, oltre che religiose. Dal punto di
vista culturale, infatti, si esige una grande disponibilità mentale per capire e accettare
legittimi usi e costumi, che non vadano peraltro contro le normative vigenti. Dal
punto di vista religioso, poi, l’incontro con l’Islam – come con tutte le altre religioni
– sollecita la promozione del dialogo. Dove questo è considerato un’opportunità più
che un ostacolo, l’identità cristiana ne esce rafforzata, appunto perché il dialogo
non è sinonimo di cedimento o di rassegnazione, ma di confronto serio, senza rinunciare
“a presentare agli interlocutori la proposta cristiana in coerenza con la propria
identità”, “per tessere con gli immigrati rapporti di mutua conoscenza e stima, che
appaiono quanto mai utili per superare pregiudizi e chiusure mentali”, sono parole
di Benedetto XVI, alla Plenaria del nostro Pontificio Consiglio nel 2006. Tutto ciò
senza cedere peraltro a qualsiasi forma di fondamentalismo, in modo da cogliere i
punti che abbiamo in comune, e sui quali fondare una vera e propria pacifica convivenza
e reciproca collaborazione per una società umanamente fraterna, con attenzione alla
reciprocità.