Il testo integrale della Lettera del Papa per l'apertura dell'Anno Sacerdotale
Un anno per “promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per
una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi”: è quanto
auspica il Papa nella Lettera indirizzata ai “fratelli nel sacerdozio” in occasione
dell’Anno Sacerdotale che aprirà questa sera nella Basilica di San Pietro con la celebrazione
dei Secondi Vespri nella Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e nella Giornata
di preghiera per la santificazione del clero. Una iniziativa voluta da Benedetto XVI
in coincidenza con il 150.mo anniversario del “dies natalis” di San Giovanni Maria
Vianney, Patrono dei parroci, morto il 4 agosto del 1859. Ecco il testo integrale
della Lettera del Papa:
Cari fratelli nel Sacerdozio, nella
prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata
tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato
di indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del
“dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del
mondo. Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento
di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel
mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore
del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione
ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i
sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso
a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile
e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui
con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza.
Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e
nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa
di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro
vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti
e inviati? Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del
primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi
lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino
a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano
poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo
ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente
impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione
usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di
spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni
di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza
umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli
stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi
nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino
alla suprema testimonianza del sangue? Ci sono, purtroppo, anche
situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà
di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto.
Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa
rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza
della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori,
di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati
e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria
Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars
era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua
gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro
che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della
misericordia divina”. Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della
grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete
è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli
pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude
in una piccola ostia...”. E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva:
“Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là
in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare
nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio?
Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta
nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene
a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace?
Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si
capirà bene che in cielo”. Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale
del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima
considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto
da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete
sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e
la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera
della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse
nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è
lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni...
Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie...
Il prete non è prete per sé, lo è per voi”. Era giunto ad Ars,
un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato
una situazione religiosamente precaria: “Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia;
voi ce ne metterete”. Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi
ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio
Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello
che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa preghiera che iniziò
la sua missione. Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con
tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana
del popolo a lui affidato. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù
la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria
Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione
col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la
sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità,
sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con
umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione.
Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta
indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria
fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella
soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e
paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero
a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale:
“Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora
e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva
bisogno di lui”, si legge nella prima biografia. L’esagerazione devota del
pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare”
attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente
gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva
ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua
chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence”
(un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione
dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui. Il
suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere
sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale
e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre
tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi
a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”. È da ricordare, in questo contesto, il caloroso
invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere
e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito
della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando
con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza
nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere
i segni dei tempi”. Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava
soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a
pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia.
“Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si
sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci
della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”. Ed esortava: “Venite alla
comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere
con Lui... “È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”. Tale educazione
dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima,
quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi
vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse
l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente”. “Tutte le buone opere riunite non
equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre
la Santa Messa è opera di Dio», diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse
tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote
è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra
come se facesse una cosa ordinaria!”. Ed aveva preso l’abitudine di offrire
sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete
ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”. Questa
immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento
interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi
a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei
fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la
confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che
la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò
in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire
ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola
come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo
virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i
fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo
stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono.
In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia,
a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars
era diventata “il grande ospedale delle anime”. “La grazia che egli otteneva [per
la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar
loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava
diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli
perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “Questo
buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”. Tutti noi sacerdoti
dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in
bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre
pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”. Dal Santo Curato d’Ars noi
sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della
Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali,
ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato
d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al
suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava
in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che
trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria
debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto
di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora
che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è
grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire,
pur di perdonarci!”. A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente,
offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto
quell’atteggiamento fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”, diceva.
“Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari
a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”. Faceva nascere il pentimento
nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza
di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A
chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale,
spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere
uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto
per piacere a Dio... Com’è bello!”. E insegnava loro a pregare: “Mio Dio, fammi la
grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”. Il
Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone,
perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche
nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore:
Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni
Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della
sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità
del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza
restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza
delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante
un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che
l’anima si intorpidisce”; ed intendeva con questo un pericoloso
assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante
sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che
opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se
stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione
dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote:
“Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo
faccio io al loro posto”. Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars
si sottoponeva, resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le
anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza
se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione. Nel
mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri
nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha
giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni
che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Perché non
nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero,
occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola
di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il
pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente
di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi
il nostro pensiero?”. Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14)
e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati
ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed
è stato fatto proprio dagli Apostoli. Fu proprio l’adesione
senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale
del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri
primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria
Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema
dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per
raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta
al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come
a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana”.
Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua
condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o
di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato
che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità),
egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli,
alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli
“era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”. Spiegava: “Il mio
segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente”. Quando si trovava con le
mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero
come voi, sono uno dei vostri”. Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta
serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!”. Anche
la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che
era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente
la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi
fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne
accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato.
Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta
adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato
dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio
di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”. Solo l’obbedienza e la
passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso
e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una
sola: servirlo come lui vuole essere servito”. La regola d’oro per una vita obbediente
gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio”. Nel
contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è
caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito
a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri
nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità.
“Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato,
in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli
opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”. A questo proposito,
vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo discernere quali spiriti
abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi,
sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli
con gioia e fomentarli con diligenza”. Tali doni che spingono non pochi a una vita
spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi
ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire
“un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza
del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”. Vorrei inoltre
aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa
Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e
può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. Occorre
che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento
dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse
forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva. Solo così i sacerdoti
sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità
cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo. L’Anno
Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle
genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote,
totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva
– e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14).
Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per
se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale programma
migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada
delle perfezione cristiana? Cari sacerdoti, la celebrazione
del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria
Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo
anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni
XXIII aveva osservato: “Poco prima che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera
piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia,
ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza,
di cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la vita
del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione
vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle.
Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima
devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza
peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”.
Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato
tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più
prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”. Alla Vergine Santissima
affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero
un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa
che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente
vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney
alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo
esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra
loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che
vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo:
“Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).
La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari
sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi
conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza,
di riconciliazione, di pace! Con la mia benedizione. Dal
Vaticano, 16 giugno 2009