La “Casa di Giorgia” gestita dai gesuiti a Roma per ridare speranza alle donne rifugiate
Aumentano in questo periodo a Roma le richieste ai centri di accoglienza. Tra queste
strutture vi è anche la “Casa di Giorgia” cui si rivolgono le donne perseguitate che
cercano asilo, rifugio politico o protezione internazionale per fuggire dai Paesi
d’origine. La struttura legata al Centro Astalli, retto dai padri gesuiti, può accogliere
fino a 36 donne, di cui 28 in convenzione con il Comune di Roma. Nel 2008 la maggioranza
delle donne accolte proveniva dall’Africa. Di recente vi è la presenza anche di donne
provenienti da Birmania, Tibet e Bangladesh, conseguenza del deterioramento della
situazione politica e sociale di questi Paesi asiatici. Sull’attività della struttura,
Anna Villani ha parlato con il padre gesuita Giovanni La Manna,
responsabile del Centro Astalli:
R. – La richiesta
e i bisogni sono superiori alla disponibilità che si ha per rispondere. Ci si sta
organizzando, c’è una ristrutturazione, almeno guardando alla realtà locale, per rendere
virtuoso il circuito di accoglienza, per dare maggiore disponibilità in un tempo ragionevole.
L’unico modo, non avendo risorse per ampliare la rete, è quello di renderlo virtuoso,
cioè che possa funzionare bene e offrire le opportunità necessarie per l’autonomia
nei tempi giusti per prolungare la permanenza delle persone nei centri, quindi potenziando
la scuola italiana, offrendo quante più opportunità formative e mettendo le persone
in condizioni di essere autonome. D. - Può riferirci di qualche
caso in particolare che avete avuto modo di trattare presso il Centro? R.
– Abbiamo tante donne single con bambini, che dopo sei mesi, avendo avuto anche la
fortuna di ricevere i permessi di soggiorno, si sono rese autonome. Poi ci sono donne
che arrivano con esperienze piuttosto forti. La donna che è stata vittima di tortura
impiega più tempo, perché si porta delle ferite visibili, anche se quelle che meritano
maggiore attenzione sono quelle interiori, per cui bisogna prevedere l’accompagnamento
psicologico e, in alcuni casi, diventa necessario un maggior tempo di permanenza e
di accompagnamento nel centro per rimettere in piedi la persona. D.
- Mancano politiche di cooperazione, dunque? R. – Siamo tutti
d’accordo che sia importante non tanto il contrasto, che riteniamo inutile come misura
per diminuire il numero di persone costrette a lasciare la propria terra, quanto il
risolvere i problemi nei Paesi di provenienza. A parole siamo tutti d’accordo, però
poi manca una volontà onesta di andare nei singoli Paesi per cercare di risolvere
i problemi. Questo è dovuto anche al fatto che ci sono ancora troppi interessi economici
nel tenere alcuni Paesi in situazioni di conflitto, in situazioni di instabilità politica.
D. – Il suo augurio, dunque, è quello che si possano risolvere
questi conflitti nei Paesi di provenienza... R. – La mia speranza
è che la persona eritrea possa desiderare e decidere di viaggiare per turismo verso
l’Italia e l’Europa, così come il ragazzo afghano, così come il ragazzo sudanese,
e non sia costretta per motivi di persecuzione politica o per motivi di persecuzione
religiosa. Contemporaneamente il mio augurio e la mia speranza sono che il lavoro
iniziato, di dialogo e di lavoro fattivo, per rendere virtuoso il circuito di accoglienza,
in particolare con il Comune di Roma, diventi sempre più un lavoro quotidiano, per
dare una risposta in attesa di risolvere i conflitti nei Paesi di provenienza.