Colombia: dichiarazione dei vescovi sui contenuti di un programma tv sulla pedofilia
In merito ad alcuni contenuti, in particolare “analisi e giudizi”, formulati in un
programma (“Settimo giorno”) del canale “Caracol” del 31 maggio scorso - nel quale
è stato trattato il caso di due sacerdoti sotto accusa per atti di pedofilia - la
Conferenza episcopale della Colombia ha voluto fare alcune considerazioni e precisazioni.
In primo luogo, affermano i presuli, si tratta di un argomento che provoca “dolore
e ferisce profondamente la sensibilità morale di ogni persona per bene”. Tali sentimenti
di “vergogna, condanna e di totale rifiuto di atti così delittuosi”, in particolare
quando sono coinvolti sacerdoti, non possono essere però mescolati con affermazioni
che provocano “disorientamento e confusione” perché inesatte. “In Colombia - si legge
nel comunicato - si commettono abusi sui minorenni da parte di membri della famiglia
o dei loro amici ogni giorno”. Nel caso di sacerdoti, la comunità giustamente è più
severa “e ciò esige da noi maggiore fedeltà agli impegni assunti in virtù della nostra
condizione di pastori”. Occorre ricordare, precisa l’episcopato colombiano, “che le
norme e le istruzioni della Chiesa per prevenire e punire questo tipo di reati sono
chiare e precise. E riguardano sia “l’ammissione al sacerdozio di persone che non
diano piene garanzie di maturità ed equilibrio della sessualità, sia nel caso in cui
sia certo l'abuso di minorenni da parte di sacerdoti. Queste norme si traducono in
poche parole: tolleranza zero”. La dichiarazione rifiuta le affermazioni secondo la
quale, sulla materia, la Chiesa farebbe poco o sarebbe debole, o addirittura “tenterebbe
di sfuggire alle sue responsabilità”. “Il religioso coinvolto in questi delitti, se
legge, deve affrontare un doppio giudizio: quello che la Chiesa apre presso il tribunale
ecclesiastico” e che, accertata la colpa, in base alle norme del diritto canonico
può arrivare anche alla perdita dello stato clericale e, poi “il giudizio davanti
alla giustizia ordinaria dello Stato che potrà e dovrà applicare le pene sancite nel
Codice di diritto penale”. Nel ribadire queste verità la dichiarazione episcopale
vuole smentire apprezzamenti fatti nel corso della trasmissione, asserendo che i membri
della Chiesa avrebbero trattamenti speciali. “Ciò, dicono i vescovi, non è vero. La
Chiesa non ha nessun privilegio davanti alla giustizia. Non era neanche vero nel periodo
in cui era in vigore un regime concordatario”. Ricordando che l’art. 28 della Carta
costituzionale garantisce che solo con un “mandato scritto del giudice” è possibile
accusare, arrestare e processare un cittadino, i vescovi osservano testualmente: “Non
si può dare la colpa alla Chiesa se la giustizia non agisce come sarebbe il desiderio
di tutti”. Infine, la dichiarazione episcopale, a firma del segretario generale mons.
Fabián Marulanda López, ribadisce che non sia vero che l’allora cardinale prefetto
della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, abbia spedito una
lettera per chiedere ai vescovi riserva nei casi di reati contro minorenni da parte
di membri del clero. L’oggetto di quella lettera, terminano i presuli, riguardava
il cosiddetto “crimine di sollecitazione” (can. - 1387) e le norme per tutelare il
nome della vittima. Recita testualmente il can. 1387: "Il sacerdote che, nell'atto
o in occasione o con il pretesto della confessione sacramentale, sollecita il penitente
al peccato contro il sesto precetto del Decalogo, a seconda della gravità del delitto,
sia punito con la sospensione, con divieti, privazioni e, nei casi più gravi, sia
dimesso dallo stato clericale". (A cura di Luis Badilla)