2009-06-06 15:15:08

Colombia: dichiarazione dei vescovi sui contenuti di un programma tv sulla pedofilia


In merito ad alcuni contenuti, in particolare “analisi e giudizi”, formulati in un programma (“Settimo giorno”) del canale “Caracol” del 31 maggio scorso - nel quale è stato trattato il caso di due sacerdoti sotto accusa per atti di pedofilia - la Conferenza episcopale della Colombia ha voluto fare alcune considerazioni e precisazioni. In primo luogo, affermano i presuli, si tratta di un argomento che provoca “dolore e ferisce profondamente la sensibilità morale di ogni persona per bene”. Tali sentimenti di “vergogna, condanna e di totale rifiuto di atti così delittuosi”, in particolare quando sono coinvolti sacerdoti, non possono essere però mescolati con affermazioni che provocano “disorientamento e confusione” perché inesatte. “In Colombia - si legge nel comunicato - si commettono abusi sui minorenni da parte di membri della famiglia o dei loro amici ogni giorno”. Nel caso di sacerdoti, la comunità giustamente è più severa “e ciò esige da noi maggiore fedeltà agli impegni assunti in virtù della nostra condizione di pastori”. Occorre ricordare, precisa l’episcopato colombiano, “che le norme e le istruzioni della Chiesa per prevenire e punire questo tipo di reati sono chiare e precise. E riguardano sia “l’ammissione al sacerdozio di persone che non diano piene garanzie di maturità ed equilibrio della sessualità, sia nel caso in cui sia certo l'abuso di minorenni da parte di sacerdoti. Queste norme si traducono in poche parole: tolleranza zero”. La dichiarazione rifiuta le affermazioni secondo la quale, sulla materia, la Chiesa farebbe poco o sarebbe debole, o addirittura “tenterebbe di sfuggire alle sue responsabilità”. “Il religioso coinvolto in questi delitti, se legge, deve affrontare un doppio giudizio: quello che la Chiesa apre presso il tribunale ecclesiastico” e che, accertata la colpa, in base alle norme del diritto canonico può arrivare anche alla perdita dello stato clericale e, poi “il giudizio davanti alla giustizia ordinaria dello Stato che potrà e dovrà applicare le pene sancite nel Codice di diritto penale”. Nel ribadire queste verità la dichiarazione episcopale vuole smentire apprezzamenti fatti nel corso della trasmissione, asserendo che i membri della Chiesa avrebbero trattamenti speciali. “Ciò, dicono i vescovi, non è vero. La Chiesa non ha nessun privilegio davanti alla giustizia. Non era neanche vero nel periodo in cui era in vigore un regime concordatario”. Ricordando che l’art. 28 della Carta costituzionale garantisce che solo con un “mandato scritto del giudice” è possibile accusare, arrestare e processare un cittadino, i vescovi osservano testualmente: “Non si può dare la colpa alla Chiesa se la giustizia non agisce come sarebbe il desiderio di tutti”. Infine, la dichiarazione episcopale, a firma del segretario generale mons. Fabián Marulanda López, ribadisce che non sia vero che l’allora cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, abbia spedito una lettera per chiedere ai vescovi riserva nei casi di reati contro minorenni da parte di membri del clero. L’oggetto di quella lettera, terminano i presuli, riguardava il cosiddetto “crimine di sollecitazione” (can. - 1387) e le norme per tutelare il nome della vittima. Recita testualmente il can. 1387: "Il sacerdote che, nell'atto o in occasione o con il pretesto della confessione sacramentale, sollecita il penitente al peccato contro il sesto precetto del Decalogo, a seconda della gravità del delitto, sia punito con la sospensione, con divieti, privazioni e, nei casi più gravi, sia dimesso dallo stato clericale". (A cura di Luis Badilla)







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