Cresce la mobilitazione internazionale per il rilascio di Aug San Suu Kyi
Dopo il nuovo appello del Consiglio di Sicurezza dell’Onu alla giunta militare del
Myanmar, per la liberazione della leader dell’opposizione e premio Nobel per la Pace
Aug San Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici, gran parte della comunità internazionale
sta chiedendo al governo di Yangon che siano maggiormente tutelati i diritti di libera
espressione. Cresce intanto la mobilitazione internazionale di Suu Kyi, attualmente
sotto processo per violazione degli arresti domiciliari. Perché in questo momento
è importante, dunque, continuare a fare pressione sul Myanmar? Giancarlo La Vella
lo ha chiesto a Marco Masciaga, esperto di Asia del Sole 24 Ore: R.
– E’ importante perché quella che governa la Birmania è una dittatura che dal 1962
in avanti ha controllato il Paese, trasformando quella che una volta era la Birmania
– che oggi si chiama Myanmar – da uno dei Paesi più ricchi del sud-est asiatico ad
una delle nazioni più povere della terra in questo momento, coinvolgendo in questo
dramma decine di milioni di persone. D. – Perché non si riesce
a scardinare questo muro che la giunta militare ha creato nei confronti della comunità
internazionale e quindi aprire una sorta di dialogo? R. – Uno
dei motivi può essere che, in Asia, la questione della democrazia forse è meno sentita
di quanto non sia in Europa, ma un altro motivo può essere il fatto che il Myanmar
è un Paese che ha risorse naturali piuttosto ingenti – gas e petrolio – e che ci sono
Paesi che hanno un rapporto privilegiato con il Myanmar – penso soprattutto alla Cina,
ma in misura minore anche l’India -, rapporti che gli permettono di poter accedere
a queste risorse. In questo momento il prezzo del petrolio non è ai massimi di 150
dollari al barile del luglio dello scorso anno, però è destinato a risalire e non
è difficile immaginare che nel giro di qualche tempo ci avvicineremo di nuovo a livelli
piuttosto alti, e quindi avere buoni rapporti con un Paese produttore come il Myanmar
può fare comodo a più di un Paese. D. – Quello che preoccupa
sono poi le sorti di Aung San Suu Kyi; molti chiedono addirittura che si scelga l’esilio
per il leader dell’opposizione… R. – Non so se lei sia d’accordo,
nel senso che lei è coraggiosamente rientrata nel Paese, coraggiosamente ci è rimasta,
sapendo che la cosa comportava dei rischi piuttosto seri; parlavo qualche giorno fa
con uno dei suoi portavoce, prima che lei venisse arrestata, e c’era un po’ di preoccupazione
per le sue condizioni di salute. Adesso, apparentemente, sta un po’ meglio. La sensazione
è che lei voglia continuare a combattere la sua battaglia nel suo Paese; la giunta
che governa il Myanmar sembra un osso piuttosto duro, nel senso che hanno un record
in termini di soppressione del dissenso e delle dimostrazioni che chiedevano democrazia
che non lascia grandissime speranze. Fino a che, a livello di Consiglio di sicurezza
dell’Onu, si sentiranno le spalle coperte, fino a che altri Paesi, altre potenze asiatiche
– parlo dell’India, che una volta aveva un atteggiamento più critico nei confronti
del regime e adesso ha adottato una linea più di “real-politik”, cercando di non guastare
i rapporti con un potenziale alleato, finché non cambiano questi fattori a livello
internazionale, ho la sensazione che la sola pressione dei Paesi europei e degli Stati
Uniti non potrà portare molto lontano