Il 62esimo Festival di Cannes si è aperto con storie molto diverse tra loro ma tutte
intense
Un poeta che segna la storia della letteratura inglese, un piccolo criminale che sconvolge
gli equilibri di potere della malavita francese, un allievo poliziotto filippino che
scopre quanto sia labile il confine fra la legge e il crimine nel suo Paese, un disoccupato
americano che crea l’evento simbolo di una generazione. Quattro storie, apparentemente
divergenti, ritratti profondi di società, colte nel loro immobilismo e nella loro
trasformazione, caratterizzano le prime battute del 62esimo Festival di Cannes. “Bright
Star” di Jane Campion mette in scena con un’altissima qualità figurativa e testuale
le vicende esistenziali e sentimentali di John Keats, una delle massime espressioni
della poesia romantica. Ricreando in studio o in luoghi che hanno sfidato lo scorrere
del tempo un ambiente di convenzioni sociali e di slanci del cuore, affidando la parte
di protagonista non al poeta ma alla donna che ne segue le sorti, lavorando con finezza
su dialoghi che talvolta sfidano la bellezza dei versi di Keats, la Campion realizza
un’opera che stupisce e commuove. Su un diverso registro – meno letterario e figurativo,
più febbrile, carnale e visionario – si colloca invece “Un prophète” di Jacques Audiard.
Autore di opere che si segnalano per la robustezza della sceneggiatura, per il loro
fiancheggiare con libertà le convenzioni del genere noir, per la scelta di cast eccezionali,
neanche questa volta il regista francese si smentisce. Il suo film, ritratto dell’ascesa
di un giovane malavitoso cresciuto alla scuola del carcere, non rende conto soltanto
delle consuetudini di un universo oscuro e violento, dominato dall’astuzia, dalla
sopraffazione e dai codici d’onore, ma ne segue anche con una sottile efficacia l’evoluzione
nel corso del tempo, con la trasmissione del potere da una frangia italo-corsa ad
una arabo-africana. Se “Un prophète”, film d’azione ma anche di sottile introspezione
psicologica, ci lascia affascinati, non altrettanto si può dire per “Kinatay” di Brillante
Mendoza, da cui si esce mortificati non solo per un estenuante uso del tempo ma anche
per la sofferenza, l’umiliazione e il dolore cui sono sottoposti i corpi degli esseri
umani. Il protagonista nella stessa giornata compie un viaggio che lo porta dalla
gioia del matrimonio e della paternità agli orrori di una notte in cui la sua innocenza
sarà irrimediabilmente distrutta. Il film denuncia l’insopportabile situazione politica
di un paese e il cinismo che corrode gli uomini; anche se poi ci chiediamo se, per
sentire la sofferenza dello spirito si debba passare per lo strazio orrendo della
carne. P, poi, iacevole e leggero risulta “Taking Woodstock” di Ang Lee che racconta
il meticoloso backstage di un’operazione che portò allo storico concerto, teatro della
consacrazione del movimento hippie. Come molte altre operazioni di adattamento di
un testo letterario, il film è attento alla ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere,
ma piuttosto che sulle coreografe musicali che resero indimenticabile l’evento, preferisce
concentrarsi sulle vicende individuali di quelli che lo resero possibile. Con un tono
che oscilla spesso fra la nostalgia di un’epoca e l’umorismo che scaturisce dalle
numerose contraddizioni dei personaggi, “Taking Woodstock” ci illanguidisce e ci fa
sorridere, come quelle vecchie fotografie nelle quali ci si scopre diversi ed uguali.
(A cura di Luciano Barisone)