2009-05-18 12:37:01

Il 62esimo Festival di Cannes si è aperto con storie molto diverse tra loro ma tutte intense


Un poeta che segna la storia della letteratura inglese, un piccolo criminale che sconvolge gli equilibri di potere della malavita francese, un allievo poliziotto filippino che scopre quanto sia labile il confine fra la legge e il crimine nel suo Paese, un disoccupato americano che crea l’evento simbolo di una generazione. Quattro storie, apparentemente divergenti, ritratti profondi di società, colte nel loro immobilismo e nella loro trasformazione, caratterizzano le prime battute del 62esimo Festival di Cannes. “Bright Star” di Jane Campion mette in scena con un’altissima qualità figurativa e testuale le vicende esistenziali e sentimentali di John Keats, una delle massime espressioni della poesia romantica. Ricreando in studio o in luoghi che hanno sfidato lo scorrere del tempo un ambiente di convenzioni sociali e di slanci del cuore, affidando la parte di protagonista non al poeta ma alla donna che ne segue le sorti, lavorando con finezza su dialoghi che talvolta sfidano la bellezza dei versi di Keats, la Campion realizza un’opera che stupisce e commuove. Su un diverso registro – meno letterario e figurativo, più febbrile, carnale e visionario – si colloca invece “Un prophète” di Jacques Audiard. Autore di opere che si segnalano per la robustezza della sceneggiatura, per il loro fiancheggiare con libertà le convenzioni del genere noir, per la scelta di cast eccezionali, neanche questa volta il regista francese si smentisce. Il suo film, ritratto dell’ascesa di un giovane malavitoso cresciuto alla scuola del carcere, non rende conto soltanto delle consuetudini di un universo oscuro e violento, dominato dall’astuzia, dalla sopraffazione e dai codici d’onore, ma ne segue anche con una sottile efficacia l’evoluzione nel corso del tempo, con la trasmissione del potere da una frangia italo-corsa ad una arabo-africana. Se “Un prophète”, film d’azione ma anche di sottile introspezione psicologica, ci lascia affascinati, non altrettanto si può dire per “Kinatay” di Brillante Mendoza, da cui si esce mortificati non solo per un estenuante uso del tempo ma anche per la sofferenza, l’umiliazione e il dolore cui sono sottoposti i corpi degli esseri umani. Il protagonista nella stessa giornata compie un viaggio che lo porta dalla gioia del matrimonio e della paternità agli orrori di una notte in cui la sua innocenza sarà irrimediabilmente distrutta. Il film denuncia l’insopportabile situazione politica di un paese e il cinismo che corrode gli uomini; anche se poi ci chiediamo se, per sentire la sofferenza dello spirito si debba passare per lo strazio orrendo della carne. P, poi, iacevole e leggero risulta “Taking Woodstock” di Ang Lee che racconta il meticoloso backstage di un’operazione che portò allo storico concerto, teatro della consacrazione del movimento hippie. Come molte altre operazioni di adattamento di un testo letterario, il film è attento alla ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere, ma piuttosto che sulle coreografe musicali che resero indimenticabile l’evento, preferisce concentrarsi sulle vicende individuali di quelli che lo resero possibile. Con un tono che oscilla spesso fra la nostalgia di un’epoca e l’umorismo che scaturisce dalle numerose contraddizioni dei personaggi, “Taking Woodstock” ci illanguidisce e ci fa sorridere, come quelle vecchie fotografie nelle quali ci si scopre diversi ed uguali. (A cura di Luciano Barisone)RealAudioMP3







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