La leader dell'opposizione birmana e premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, è
stata nuovamente rinchiusa in carcere dal regime militare di Rangoon a seguito di
una visita non autorizzata ricevuta la settimana scorsa da un cittadino americano,
che aveva raggiunto a nuoto la casa in cui è agli arresti domiciliari da due decenni.
La notizia dell’arresto di Aung San Suu Kyi ha sollevato un coro di proteste unanime
negli ambienti internazionali degli attivisti per i diritti umani. Stefano Leszczynski
ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia:
R. – Come
sempre, ogni anno, alla vigilia della scadenza degli arresti domiciliari - la data
di quest’anno è il 27 maggio - il governo birmano trova qualche pretesto per continuare
a privarla della libertà personale. Più in generale, è un nuovo segnale che arriva
dell’impunità di questo regime che fa parte di un organismo regionale come l’Asean
- che in questi anni è stato decisamente silente - e che gode quindi, se non di una
protezione esplicita, almeno di una connivenza forte che impedisce iniziative decise
da parte della comunità internazionale. D. - Aung San Suu Kyi
è ormai agli arresti e comunque in una situazione di privazione della libertà, da
tantissimo tempo. Com’è iniziata la sua vicenda? R. - Aung San
Suu Kyi è stata la leader di quella che ha rappresentato da sempre la forma più seria,
organizzata, di opposizione politica, ad un regime che ormai è in vita da mezzo secolo,
la Lega Nazionale per la Democrazia. Questo organismo vinse le elezioni 20 anni fa,
nel 1989. Aung San Suu Kyi da allora, insieme a tutta la leadership, la dirigenza
politica della Lega Nazionale per la Democrazia, venne posta in stato di arresto.
Ha trascorso 13 anni in carcere ed i successivi sei agli arresti domiciliari. Tutta
la dirigenza politica di questo partito è o agli arresti o in esilio, quindi non c’è
più una forma organizzata di opposizione. D. – Nonostante tutto,
nonostante questa situazione, la figura di questa donna, a livello internazionale,
è rimasta sempre dominante… R. – Sì, questo è un risultato positivo,
insomma. Come sempre, dare un nome, un volto ed una storia alle vittime delle violazioni
dei diritti umani, è importante e serve a non farle dimenticare. In queste ore però,
devo dire che tutto quanto risulta abbastanza, se non inutile, poco importante perché
nonostante la notorietà, nonostante il prestigio internazionale, nonostante sia un
Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi rischia di trascorrere molto altro tempo privata
della libertà personale, aggiungo anche in condizioni di salute che appaiono niente
affatto buone. D. - Aung San Suu Kyi ha mai voluto abbandonare
il proprio Paese. Quante persone, come lei, ci sono nel mondo nelle stesse condizioni? R.
– Il suo è un caso di grande coraggio. La scelta è sempre difficile tra chi decide
di condurre una battaglia di opposizione, di rispetto dei diritti umani dall’esilio,
e chi cerca di farlo, nel suo Paese, correndo gravi rischi personali. In questi giorni,
un’altra figura femminile importante, è Yoani Sànchez, la blogger di Cuba che ha deciso
di rimanere nel suo Paese a fare una battaglia per i diritti umani. La sta facendo
in condizioni di semi libertà perché poi le autorità dell’Avana la minacciano, la
intimidiscono e le restringono la libertà di movimento, ecc. Aung San Suu Kyi è certamente
in una situazione grave, gravissima, e credo che vada a suo merito la decisione di
aver cercato di continuare la propria battaglia per i diritti umani, lì.