Della situazione del Campo profughi di Aida ci parla padre William Shomali
rettore del seminario di Beit Jala, al microfono di Roberto Piermarini: R. – Il Campo
profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un terreno che
apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima di tutto
qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso sono
come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse: le fognature
sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette mila persone,
per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che aveva dei terreni
là e vi ha costruito. D. – Come vivono queste poche famiglie cristiane all’interno
di questo campo profughi, a maggioranza musulmana? R. – Dipende. C’è qualcuno
che vive meglio: non sono mendicanti, direi che sono persone normali. D.
– Sono in armonia con la comunità musulmana? R. – Direi di sì perché ogni
volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema. Il problema arriva quando
siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove il numero è consistente:
ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia per nessuno. D.
– Quali problematiche ci sono all’interno di questo campo di Aida? R. –
Questa gente vuol ritornare alla sua casa di origine: hanno lasciato la propria terra,
la casa, i familiari. Ogni anno la situazione diventa più difficile perché i primi
profughi, quelli del ’48, sono quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni,
la possibilità di ritornare, diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione
di ritornare, esiste, sapendo che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi.
Hanno messo questa condizione per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno
il ritorno dei profughi all’interno dei Territori palestinesi, ma mai all’interno
di Israele. (Montaggio a cura di Maria Brigini)