Padre Shomali e suor Nobs sulla visita del Papa al Campo profughi di Aida e al Caritas
Baby Hospital
Nel pomeriggio il Pontefice visiterà la Grotta della Natività e, a seguire, il Caritas
Baby Hospital di Betlemme e il Campo profughi di Aida, dove incontrerà - come è stato
a Gerusalemme per la famiglia del soldato Shalit prigioniero di Hamas - due bambine,
una cristiana e l’altra musulmana, figlie di genitori detenuti in Israele. Inoltre
il Papa donerà 50 mila euro al Campo, che li utilizzerà per la costruzione di tre
aule scolastiche che saranno intitolate a suo nome. Secondo l’Onu i profughi palestinesi
sono circa 4 milioni e 600 mila. Nei territori palestinesi gli sfollati sono un milione
e 300 mila. Il campo profughi di Aida accoglie circa 7 mila persone. Sulla situazione
in questo campo ci parla padre William Shomali rettore del seminario di Beit
Jala, al microfono di Roberto Piermarini:
R.
– Il Campo profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un
terreno che apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima
di tutto qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso
sono come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse:
le fognature sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette
mila persone, per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che
aveva dei terreni là e vi ha costruito.
D. – Come vivono
queste poche famiglie cristiane all’interno di questo campo profughi, a maggioranza
musulmana?
R. – Dipende. C’è qualcuno che vive meglio:
non sono mendicanti, direi che sono persone normali.
D.
– Sono in armonia con la comunità musulmana?
R. – Direi
di sì perché ogni volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema. Il problema
arriva quando siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove il numero
è consistente: ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia per
nessuno.
D. – Quali problematiche ci sono all’interno
di questo campo di Aida?
R. – Questa gente vuol ritornare
alla sua casa di origine: hanno lasciato la propria terra, la casa, i familiari. Ogni
anno la situazione diventa più difficile perché i primi profughi, quelli del ’48,
sono quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni, la possibilità di
ritornare, diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione di ritornare, esiste,
sapendo che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi. Hanno messo questa
condizione per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno il ritorno dei
profughi all’interno dei Territori palestinesi, ma mai all’interno di Israele. (Montaggio
a cura di Maria Brigini)
Prima di arrivare al Campo profughi
di Aida, il Papa si reca al Caritas Baby Hospital di Betlemme: un ospedale pediatrico
fondato nel 1978 e sostenuto dai vescovi svizzeri e tedeschi. Assicura circa 30 mila
prestazioni ambulatoriali e 4 mila degenze all’anno anche grazie all’impegno delle
Suore Francescane Elisabettiane di Padova. Roberto Piermarini ne ha parlato
con suor Erika Nobs, direttrice delle infermiere dell’ospedale:
R.
– Assistiamo i bambini palestinesi che vengono da Betlemme e dalla circoscrizione
di Hebron, dalla parte sud del West Bank.
D. – Quindi,
sono tutti bambini musulmani, la maggior parte?
R. –
La maggior parte sono bambini musulmani, la stragrande maggioranza: il 90 per cento
e anche più.
D. – Che rapporto avete con le famiglie
musulmane che portano a voi questi bambini?
R. – Di
solito un buon rapporto: loro sono contenti e grati per il servizio che diamo. Siamo
l’unico ospedale ed hanno veramente bisogno di noi. Ed anche per questo sono grati.
D.
– Cosa curate in particolare?
R. – Curiamo tutte le
malattie interne e anche tante malattie genetiche, malattie metaboliche, malattie
del cuore, dovute al matrimonio tra consanguinei.
D.
– Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate nel vostro lavoro, nell’ospedale?
R.
– Le difficoltà sono quelle del trasferimento a Gerusalemme, quando un bambino ha
bisogno di un intervento chirurgico. E’ una grande difficoltà, perché senza permessi
non possono partire. Si devono, poi, coordinare le ambulanze. Una nostra ambulanza
deve andare al check-point e dall’altra parte deve venire l’ambulanza da Israele,
e questo crea difficoltà, perché i bambini a volte sono molto ammalati, ma devono,
in ogni caso, cambiare l’ambulanza.
D. – I bambini che
voi accogliete nel vostro ospedale, la maggior parte non pagano, non hanno la possibilità
di pagare. Ma come va avanti l’ospedale economicamente, avete dei donatori?
R.
– Noi abbiamo tanti donatori e siamo grati a tutti gli amici che ci aiutano a portare
avanti l’opera: amici dall’Italia, amici dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Europa
e anche altrove. Possiamo veramente fare una buona opera.
D.
– Suor Erika, perché questa visita del Papa al Caritas Baby Hospital? Come vede lei
questa visita?
R. – Devo dire che siamo tanto contenti
di questa visita, di questa sorpresa che ci fa il Santo Padre. Ma io penso che oltre
a visitare i luoghi santi, cioè il luogo dove Gesù è nato, lui voglia vedere anche
i bambini Gesù viventi, che abbiamo nel nostro ospedale. (Montaggio a cura
di Maria Brigini)