2009-05-11 15:09:47

Guerra in Sri Lanka: uccisi cento bambini


La catastrofe umanitaria abbattutasi sullo Sri Lanka a causa dei combattimenti tra esercito cingalese e Tigri Tamil non sembra conoscere limiti. Oltre cento bambini figurano tra i civili tamil uccisi dai bombardamenti del fine settimana nel nord est del Paese. A riferirlo è il portavoce delle Nazioni Unite a Colombo, evocando un vero e proprio ''bagno di sangue''. Ma sul motivo per cui i civili sono sempre più obiettivo delle parti in conflitto, Stefano Leszczynski ha intervistato Sergio Cecchini, direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere Italia:RealAudioMP3  
R. – Perché sono pochissime le misure di tutela che vengono messe in pratica dalle parti in conflitto, cioè quelle di risparmiare i civili e permettere ai civili di poter fuggire in maniera sicura dalle zone di conflitto e poter raggiungere o gli ospedali per le persone bisognose di assistenza medica, o i centri per gli sfollati. Sempre più spesso nello Sri Lanka, e in particolare in questa fase, il numero degli sfollati che si sono rifugiati nei campi nei rpessi di Vavulnia cresce di giorno in giorno. Adesso si parla di più di 170 mila sfollati, 20 mila in più rispetto alla settimana scorsa. E un dato che a noi preoccupa particolarmente è la riduzione del numero dei feriti che è arrivato al nostro ospedale di Vavulnia, nonostante gli scontri continuino con notevole intensità.
 
D. - Nonostante la pressione internazionale, l’attenzione internazionale su questo conflitto, le organizzazioni non governative, in particolare le organizzazioni umanitarie, non sono libere di operare, vengono tenute ai margini...
 
R. – Questo purtroppo avviene sempre più spesso in situazioni di conflitto: da una parte si vuole ulteriormente aggravare il peso del conflitto su una parte della popolazione, la parte che possa riferirsi a quel gruppo ribelle o a quello schieramento armato, ma dall’altra non si vogliono avere testimoni. Purtroppo, in Sri Lanka è successo in passato che organizzazioni umanitarie fossero obiettivo di attacchi mirati, di attacchi violenti, ma una serie di ostacoli – il mancato rilascio dei visti per personale medico, il non concedere i permessi di lavoro in determinate zone – fanno sì che, per esempio, oggi, nella zona dove sono in corso gli scontri più violenti, non siano presenti organizzazioni umanitarie.
 
D. – Pure ai margini delle zone di combattimento, le organizzazioni non governative, come Medici senza Frontiere, sono attive e comunque svolgono un’opera importante...
 
R. – Abbiamo un ospedale nella città di Vavulnia, un ospedale che ormai è sovraffollato: il 90 per cento delle persone che arrivano sono feriti da arma da fuoco, da schegge di granate, e questo rende ben evidente quanto le persone civili vengano intrappolate negli scontri a fuoco tra i militari. Ma c’è anche un altro aspetto, per noi cruciale, cioè il trauma psicologico di queste persone che hanno la fortuna di rifugiarsi in un campo sfollati. Per cui le componenti di intervento sono ovviamente la chirurgia di emergenza – e in questo momento vorremmo rafforzare il nostro team chirurgico, ma non riusciamo ad avere le autorizzazioni – la componente psicologica, perché poi esistono le ferite invisibili di queste violenze e tutto il resto. Non ci dimentichiamo, forme di assistenza che sono salvavita: per esempio, per le donne incinta che hanno bisogno di un parto cesario. In una situazione in cui i civili sono intrappolati, ovviamente il prezzo che loro pagano per il conflitto e per il mancato accesso alle strutture di cura può avere conseguenze drammatiche sulla loro vita.







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