La catastrofe umanitaria abbattutasi sullo Sri Lanka a causa dei combattimenti tra
esercito cingalese e Tigri Tamil non sembra conoscere limiti. Oltre cento bambini
figurano tra i civili tamil uccisi dai bombardamenti del fine settimana nel nord est
del Paese. A riferirlo è il portavoce delle Nazioni Unite a Colombo, evocando un vero
e proprio ''bagno di sangue''. Ma sul motivo per cui i civili sono sempre più obiettivo
delle parti in conflitto, Stefano Leszczynski ha intervistato Sergio Cecchini,
direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere Italia: R. – Perché
sono pochissime le misure di tutela che vengono messe in pratica dalle parti in conflitto,
cioè quelle di risparmiare i civili e permettere ai civili di poter fuggire in maniera
sicura dalle zone di conflitto e poter raggiungere o gli ospedali per le persone bisognose
di assistenza medica, o i centri per gli sfollati. Sempre più spesso nello Sri Lanka,
e in particolare in questa fase, il numero degli sfollati che si sono rifugiati nei
campi nei rpessi di Vavulnia cresce di giorno in giorno. Adesso si parla di più di
170 mila sfollati, 20 mila in più rispetto alla settimana scorsa. E un dato che a
noi preoccupa particolarmente è la riduzione del numero dei feriti che è arrivato
al nostro ospedale di Vavulnia, nonostante gli scontri continuino con notevole intensità.
D. - Nonostante la pressione internazionale, l’attenzione internazionale
su questo conflitto, le organizzazioni non governative, in particolare le organizzazioni
umanitarie, non sono libere di operare, vengono tenute ai margini... R.
– Questo purtroppo avviene sempre più spesso in situazioni di conflitto: da una parte
si vuole ulteriormente aggravare il peso del conflitto su una parte della popolazione,
la parte che possa riferirsi a quel gruppo ribelle o a quello schieramento armato,
ma dall’altra non si vogliono avere testimoni. Purtroppo, in Sri Lanka è successo
in passato che organizzazioni umanitarie fossero obiettivo di attacchi mirati, di
attacchi violenti, ma una serie di ostacoli – il mancato rilascio dei visti per personale
medico, il non concedere i permessi di lavoro in determinate zone – fanno sì che,
per esempio, oggi, nella zona dove sono in corso gli scontri più violenti, non siano
presenti organizzazioni umanitarie. D. – Pure ai margini delle
zone di combattimento, le organizzazioni non governative, come Medici senza Frontiere,
sono attive e comunque svolgono un’opera importante... R. –
Abbiamo un ospedale nella città di Vavulnia, un ospedale che ormai è sovraffollato:
il 90 per cento delle persone che arrivano sono feriti da arma da fuoco, da schegge
di granate, e questo rende ben evidente quanto le persone civili vengano intrappolate
negli scontri a fuoco tra i militari. Ma c’è anche un altro aspetto, per noi cruciale,
cioè il trauma psicologico di queste persone che hanno la fortuna di rifugiarsi in
un campo sfollati. Per cui le componenti di intervento sono ovviamente la chirurgia
di emergenza – e in questo momento vorremmo rafforzare il nostro team chirurgico,
ma non riusciamo ad avere le autorizzazioni – la componente psicologica, perché poi
esistono le ferite invisibili di queste violenze e tutto il resto. Non ci dimentichiamo,
forme di assistenza che sono salvavita: per esempio, per le donne incinta che hanno
bisogno di un parto cesario. In una situazione in cui i civili sono intrappolati,
ovviamente il prezzo che loro pagano per il conflitto e per il mancato accesso alle
strutture di cura può avere conseguenze drammatiche sulla loro vita.