Sessant'anni fa la tragedia di Superga: ancora vivo il mito del grande Torino
Nella Basilica di Superga si ricorderanno nel pomeriggio le vittime della sciagura
aerea, avvenuta 60 anni fa e costata la vita a 31 persone, tra cui diciotto calciatori,
dirigenti e tecnici della squadra di calcio del Torino. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
“Un crepuscolo
durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Il cielo si sfaldava in nebbia,
e la nebbia cancellava Superga. Ho sentito un rombo, paurosamente vicino, un colpo,
un terremoto. Poi il silenzio. E una voce, è caduto un aereo...”. Con queste parole
il cappellano della Basilica di Superga ricordava, poco dopo lo schianto dell’aereo
che trasportava la squadra del Torino, una delle più grandi tragedie del calcio. Era
il 4 maggio 1949: l’aereo con a bordo la formazione granata si schiantava per la scarsa
visibilità sulla collina di Superga. La squadra stava tornando da Lisbona, in Portogallo,
dove aveva giocato la sua ultima partita contro il Benfica, un’amichevole
per celebrare l’addio al calcio di José Ferreira, capitano della squadra
portoghese. E’ scampato alla tragedia solo chi non è salito su quell’aereo: “Mi
sono salvato – spiega Sauro Tomà, oggi 83.enne -perché ero infortunato
e non presi parte a quella trasferta”. Su quella drammatica giornata si è più volte
soffermato anche il commentatore sportivo Giorgio Tosatti che in quel terribile schianto
ha perso il padre: “Andai a prendere mio padre al giornale. C’era un sacco di gente
fuori, io avevo undici anni, entrai, andai dall’usciere. Gli chiesi: papà è arrivato?
Mi rispose: ma non sai che è morto? Ho saputo così della sua scomparsa…”. Due giorni
dopo lo schianto, ai funerali parteciparono oltre 500 mila persone. Ma la sciagura,
costata la vita anche ai membri dell'equipaggio e a tre giornalisti, non ha cancellato
il ricordo di quel grande Torino, simbolo di un’Italia che a fatica cercava di superare
le devastazioni materiali e morali della Seconda Guerra Mondiale. “Il Torino – ha
scritto il giornalista Indro Montanelli - non è morto, è soltanto in trasferta”. Le
sue gesta continuano ad essere un inno allo sport: “rappresentavano una serie di valori
– sottolinea Franco Ossola, figlio dell’ala destra di quel Torino - che il popolo
aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza. La gente
si riconosceva nei suoi campioni, che erano persone normali: li incontravi per strada,
alcuni di loro avevano dei negozi in centro dove lavoravano”. “Era una forza terrena,
operaia, molto piemontese – ricorda il giornalista Giampaolo Ormezzano – con giocatori
messi insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo”. Sul campo dello storico
stadio Filadelfia la squadra granata ha collezionato vittorie e successi: dal 1942
al 1949 ha vinto 5 scudetti e stabilito numerosi record. Dieci calciatori di quella
squadra facevano parte della nazionale italiana. Sessanta anni dopo, sono diverse
le iniziative per ricordare quella tragedia: questa mattina, in molti si sono
recati al cimitero Monumentale per rendere omaggio ai giocatori di quella indimenticabile
squadra. Nel pomeriggio, alle ore 17, verrà celebrata la Santa Messa da don Aldo Rabino.
Il giocatore Alessandro Rosina, che rappresenta il Torino di oggi, scandirà
i nomi delle vittime. Alle spalle del calciatore ci sarà un maxischermo su cui verranno
proiettate immagini legate al grande Torino.
Sull'eredità lasciata dal
grande Torino, non solo al mondo dello sport, ascoltiamo al microfono di Luca Collodi
il cappellano della squadra granata, don Aldo Rabino:
R. – Resta
un ricordo indelebile, unico; rimane quella che viene chiamata un po’ la fede, se
vogliamo, anche se il termine può essere improprio. La fede verso una realtà di vita,
perché parlare del grande Torino vuol dire parlare di una storia che non vuol morire
e che, caso strano, vede in prima fila moltissimi giovani che non hanno mai visto
giocare il grande Torino ma ne hanno solo sentito parlare dai genitori; rimane questa
fede in un qualcosa che ha il senso della vita, che profuma di umanità, che porta
al di là di quello che è il semplice fatto sportivo.
D.
– Don Rabino, perché il grande Toro ha rappresentato tutto questo?
R.
– Perché è stato un momento in cui, in un’Italia piena di macerie, il senso della
speranza rifioriva su un campo di calcio. La voglia di vincere – quindi di alzare
la testa – diventava un po’ l’occasione, attraverso il gioco del calcio, per far vedere
che questa nazione era viva, che questo popolo sentiva sentimenti di gioia, voleva
ritornare ad essere protagonista in mezzo a molte fatiche. Quindi, è una lezione di
vita che si perpetua; quello che commuove – direi quotidianamente – è che quando si
incontra qualche tifoso del Torino, ci si accorge che si è dentro qualcosa di diverso.
Credo che la nostra storia, la nostra esistenza, sia sempre temprata dalla fatica;
laddove c’è sacrificio, c’è il senso del dolore, c’è però anche il senso della speranza
e della voglia di ripartire e di risorgere. Oggi la lezione che ci lascia Superga
che, a 60 anni di distanza, trova ancora tanta gente che non ha visto, non ha conosciuto;
è inspiegabile, ma è una cosa bellissima. (Montaggio a cura di Maria Brigini)