Rogaţiuni: De furtună şi alte catastrofe, mântuieşte-ne, Doamne!
(RV- 24 aprilie 2009) Cu gândul la cutremurul de pământ care a
lovit recent regiunea italiană Abruzzo unde şi-au pierdut viaţa 295 de persoane, între
care şi 5 români, având totodată în vedere şi dezlănţuirea
furiei apelor din România, în special cea
din lunile iulie-august în Moldova, fenomen
provocat şi de abuzurile omului asupra naturii, a nerespectării
creaţiei, aminteam pe 28 iulie 2008 cât de bine ar fi să fie reluate procesiunile
şi Litaniile Tuturor Sfinţilor, pe care Biserica le recită la „Rogaţiuni”,
primăvara pentru binecuvântarea câmpului şi ferirea de catastrofele naturale.
Litania
mare. E procesiunea făcută la câmp în ziua de 25 aprilie. A fost introdusă iniţial
la Roma în sec. al VI-lea cu scopul de a înlocui sărbătoarea păgână în cinstea zeului
Robigo, ocrotitorul holdelor împotriva ruginii. - Litaniile minore sau Rogaţiunile.
Sunt procesiunile care se fac în cele trei zile premergătoare sărbătorii înălţării
Domnului, tot în câmp. Iniţial au fost introduse de Sfântul Mamert, episcop de Vienne,
în 470 cu ocazia unei calamităţi publice. Au un caracter penitenţial, iar scopul lor
este acela de a atrage binecuvântarea lui Dumnezeu asupra roadelor pământului. După
normele liturgice actuale, modul de organizare al Rogaţiunilor precum şi data lor
intră în competenţa Conferinţelor episcopale. Litania mare s-a desfiinţat.
Iată
câteva din invocaţiile specifice şi rugăciunea finală:
Ca să binevoieşti
a ajuta pe toţi oamenii să beneficieze de bunurile pământului, Te rugăm ascultă-ne!
De ură şi de orice reavoinţă, *mântuieşte-ne, Doamne! De duhul indiferenţei
şi al trândăviei, * De duhul tristeţii şi al disperării, * De întunecarea spiritului,* De
împietrirea inimii, * De furtună şi alte catastrofe, * De foamete, război şi
molimă,* De poluarea pământului, *
Te rugăm, Domane, să asculţi rugile celor
care te imploră şi să te miluieşti de noi, care mărturisim numele tău, pentru ca,
în bunătatea ta, să ne dai iertare şi pace prin Cristos Domnul nostru.
Aici
serviciul audio din 28 iulie 2008:
Ecco un
interessante articolo di Enzo Bianchi a proposito delle rogazioni apparso su La Stampa
del 29/07/07
E noi suonavamo le nostre campane
"Che tempo
fa?": domanda che risuona sovente fin dal mattino, quando uno si alza e va alla
finestra per osservare il cielo, domanda pronunciata tra sé e sé, la cui risposta
è cercata nelle previsioni meteorologiche alla televisione o nelle apposite pagine
dei quotidiani. Da sempre, l’essere umano sa che il suo modo di abitare "il tempo
che passa" dipende anche dal "tempo che fa", un tempo, quest’ultimo, che condiziona
il lavoro, gli spostamenti, l’umore di ciascuno. Oggi questi condizionamenti sembrerebbero
minori di una volta: il lavoro in campagna riguarda una percentuale esigua degli abitanti
dell’occidente industrializzato, i mezzi di trasporto e le strade consentono spostamenti
anche in condizioni atmosferiche un tempo proibitive... eppure l’interesse per "il
tempo che fa" non è affatto diminuito, anzi è aumentato al punto che per alcuni è
diventato un’autentica ossessione. Sì, ci si tiene costantemente aggiornati sul "meteo",
se ne parla molto: la capacità – sconosciuta nei secoli passati – di prevedere il
tempo con un anticipo di almeno una settimana spinge infatti a "sapere", a commentare,
a discutere, anche se poi assai raramente ci si lascia determinare dal tempo nelle
scelte e nei comportamenti. Ma all’interno di questa "ossessione" c’è un altro aspetto
che riguarda la lettura che ognuno di noi compie del "tempo che fa": questa dipende
essenzialmente da quanto ci dicono i mass media, verso i quali c’è un atteggiamento
di fiducia quasi fideistica che toglie la possibile oggettività, il discernimento
personale, la capacità di giudicare da se stessi a partire dall’esperienza e dal ricordo
degli anni precedenti. Così, quando sta piovendo e noi leggiamo, ascoltiamo e vediamo
servizi su piogge torrenziali, alluvioni, inondazioni e diluvi, siamo presi da paura
e sgomento come se la pioggia in sé fosse una novità imprevedibile; oppure la pioggia
tarda a venire e subito ci vien fatto intravedere il deserto che avanza: allora immaginiamo
già le nostre verdi colline riarse, senza più viti né alberi... se poi in estate fa
caldo, assieme al televisore accendiamo il condizionatore e ci angosciamo per il surriscaldamento
del pianeta e lo scioglimento dei ghiacciai. Così, previsioni disastrose, pessimistiche
mettono in movimento una grammatica apocalittica che preannuncia "eventi biblici"
(tra l’altro non si capisce perché gli eventi biblici, che sono eventi umani, devono
essere tutti disastrosi, epocali...). C’è sempre un’apocalisse meteorologica incombente,
così le nostre paure del domani si concentrano ancora una volta sul tempo: non più
la fine del tempo – questo ormai è divenuto un aeternum continuum – ma il "che tempo
fa?" è divenuto l’oggetto delle nostre paure. E la gente si ritrova a ripetere
le frasi di sempre: "Il tempo è cambiato ... Non ci sono più le stagioni... Mai
visto un tempo simile... Non c’è più il tempo di una volta... Ormai il tempo
è matto...". Parole che ritroviamo già ai tempi di Lucrezio, attento osservatore delle
cose della natura, quando si ammoniva a non dire: "quand’ero piccolo nevicava tantissimo,
adesso non nevica più..."; quando si è piccoli, infatti, anche se la neve è poca,
sembra sempre molto alta! In realtà siccità, pioggia, inondazioni, tempeste sono emergenze
periodiche di tutte le epoche e di tutti i luoghi: emergenze che cancelliamo dalla
nostra memoria e che così ci appaiono ogni volta come novità inedite. Se le variazioni
climatiche avvengono dunque su cicli ben più ampi che il semplice volgere di un paio
di generazioni, è il rapporto che oggi si ha con "il tempo che fa" a essere
cambiato rispetto a quello che viveva anche solo la mia generazione fino a
quarant’anni fa, soprattutto in campagna.
Per me, che abitavo in Monferrato,
tra colline coperte di filari di vite e piccole pianure chiazzate da campi di grano,
il tempo meteorologico era anche allora, soprattutto d’estate, una vera ossessione:
ma ossessione di paura preventiva che accompagnava tutti, da maggio fino a ottobre.
Dal tempo dipendeva "il pane", ovvero la sussistenza alimentare della gente contadina,
e del tempo la radio dava sì qualche previsione, ma molto incerta, per vaste aree,
sovente fallace, per cui non ci si fidava di quel che diceva. Ma di cosa ci si fidava,
allora? Della religione, del prete, della preghiera... Del resto sappiamo che in tutte
le culture si sono sempre praticati riti per implorare la pioggia, per chiedere il
sole, per ottenere il regolare e pacifico scorrere dei fiumi... L’essere umano, infatti,
si è sempre sentito impotente a dominare il tempo e, quindi, portato a ricorrere agli
dèi come all’unica e ultima speranza. A fine aprile, per san Marco, iniziavano
le cosiddette "rogazioni": al mattino presto si partiva in processione attraversando
le campagne, cantando le lunghe litanie dei santi e chiedendo un’annata feconda difrutti. Il prete cantava in latino il vangelo sulla porta della chiesa:
"Quale padre, tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se
gli chiede un uovo gli darà uno scorpione?". "Dunque, occorre chiedere – proseguiva
il prete – chiedere con insistenza a Dio, e Dio concederà il tempo propizio e raccolti
abbondanti...". Se poi qualcuno gli faceva osservare di aver chiesto e di non essere
stato esaudito, il prete rispondeva che questo dipendeva dal fatto di aver chiesto
male oppure dall’essersi comportati in modo tale da meritarsi il mancato esaudimento.
E ai più sembrava che le parole del prete fossero fondate perché a volte succedeva
– e non si mancava di farlo notare – che la grandine colpisse i filari di quelli che
"non prendevano messa" o che erano soliti bestemmiare... allora si temeva ancor di
più quel Dio che "castigando guariva" ("castigando sanas"). Certo, non mancavano
quelli che irridevano questi atteggiamenti e ne mostravano la contiguità con la superstizione,
ma resta il fatto che al prete allora veniva riconosciuta autorevolezza ed efficacia,
quasi fosse un nuovo profeta Elia, capace di chiudere e aprire il cielo per il bene
del proprio gregge. L’angoscia per un evento atmosferico che in pochi minuti poteva
distruggere un anno di lavoro era motrice di parole e azioni straordinarie che oggi
fatichiamo non solo a credere ma perfino a immaginarci. Quando, da maggio in poi,
appariva all’orizzonte "lo scuro", cioè le avvisaglie di un temporale, tutti uscivano
di casa e stavano sull’uscio ad osservare il cielo: se la minaccia veniva da Nizza,
si annunciava un temporale particolarmente cattivo, se invece saliva da Acqui era
meno pericoloso. E mentre la banderuola sull’asta della croce della chiesa cigolava
sotto i colpi del vento, quando ormai il temporale era incombente e apparivano le
terribili nubi più basse color caffelatte, nuvole piene di grandine, il parroco chiamava
il chierichetto – quasi sempre ero io, perché abitavo proprio di fronte alla parrocchiale
ed ero già lì sulla soglia di casa a scrutare a mia volta il cielo – si vestiva con
i paramenti liturgici, in particolare il piviale viola, e partiva risoluto incontro
al temporale, con me accanto che portavo il secchiello dell’acqua santa. Tra tuoni
e lampi che scuotevano la terra, il parroco avanzava deciso fendendo l’aria con l’aspersorio
e con voce ferma implorava che Dio fermasse la grandine: "Per Deum verum, per Deum
vivum...!". Rivedo ancora oggi quelle immagini: il parroco con il volto duro,
carico delle ansie e delle attese di tutti i suoi parrocchiani, le vesti scosse dal
vento, incurante della pioggia che cominciava a cadere, affrontava a viso scoperto
il demone della "tempesta". Io ero impressionato dalla sua fede, la sua convinzione,
la sua forza d’animo... mentre la perpetua contribuiva con scongiuri più "popolari",
come il bruciare rami di ulivo benedetti. E così, il più delle volte la grandine era
scongiurata: il mio parroco, don Montrucchio, aveva fama nella zona di essere uno
dei preti più efficaci in queste suppliche e io attribuivo questo suo potere alla
sua preghiera intensa, alla sua ricca umanità, al suo sapersi fare carico morale e
materiale dei cristiani a lui affidati. Mi appariva davvero come un amico di Dio e
allora, mi dicevo, come potrebbe un amico negare un favore all’amico? E
come dimenticare le "orationes diversae" che tutti, grandi e piccoli, conoscevamo
a memoria? C’era quella per ottenere la pioggia, che invocava Dio "in quo vivimus,
movemur et sumus" per ottenere contro la siccità una "pluviam congruentem"; quella
per il sereno, che chiedeva sole sul mondo e che osava dire che se il Signore faceva
cessare le piogge torrenziali ci avrebbe mostrato il sorriso del suo volto ("hilaritatem
vultus tui"); poi quella contro la tempesta, la grandine, il nemico terribile
dei campi di grano maturo e delle vigne: se si abbatte sui filari li spoglia completamente
lasciando uno spettacolo di tremenda desolazione che provoca pianto e disperazione.
A quei tempi non esistevano assicurazioni contro queste calamità, né razzi antigrandine,
né reti di protezione: nella mia infanzia del dopoguerra, la grandine sui grappoli
pronti per la vendemmia significava letteralmente la fame. Solo il parroco e il suono
di tutte le campane avevano qualche potere contro quella calamità. Sì, fino all’inizio
di ottobre, quando finiva la vendemmia, interi paesi vivevano così con quell’ansioso
interesse per il "tempo che fa", tanto diverso dalla curiosità un po’ frivola dei
nostri giorni. Ieri era Dio colui in cui si aveva fede e fiducia, oggi sembra essere
la meteorologia... Cos’è meglio, più umano e più bello? Da parte mia, su questo non
ho dubbi. Enzo Bianchi