Incontro a Beida tra autorità libiche e comunità cattolica: intervista con mons. Martinelli
Televisione e stampa libica hanno dato grande risalto all’incontro di amicizia organizzato
lunedì scorso a Beida dalle autorità locali con la comunità cattolica. Da parte libica
erano presenti Sayf al-Islam, il figlio secondogenito del colonnello Gheddafi, il
ministro della Sanità e il direttore degli Affari religiosi; da parte cattolica hanno
partecipato i vicari apostolici di Tripoli e Bengàsi con i 15 sacerdoti e le 70 religiose
presenti in Libia, portati a Beida con un apposito aereo. Sul significato di questo
evento Sergio Centofanti ha sentito il vicario apostolico di Tripoli, mons.
Giovanni Innocenzo Martinelli:
R. – Le autorità
libiche hanno voluto presentare questo incontro come cammino di un dialogo tra le
religioni, quindi dialogo di vita: è stato anche il desiderio di far conoscere al
Paese, ai libici stessi ma anche al di fuori, questa tolleranza all’interno del Paese
nei confronti della Chiesa, nonostante certamente alcune difficoltà non mancano.
D.
– Quali sono le vostre difficoltà?
R. – Abbiamo avuto
in questi ultimi tempi alcune difficoltà per quanto riguarda i visti: i visti delle
religiose e dei sacerdoti. Ma speriamo di risolvere questo problema in breve tempo,
perché ci siamo chiariti anche con le autorità: siamo qui al servizio e non abbiamo
altre intenzioni se non quelle di servire la gente, i cristiani e quindi anche assistere
i libici.
D. – Si parla spesso di reciprocità di
diritti: qual è il caso della Libia?
R. – Di fatto,
noi abbiamo libertà religiosa, in Libia, libertà nel culto per il servizio ai cristiani.
In Italia, i musulmani hanno i loro luoghi di culto, perché sono dati loro facilmente.
Qui, grazie a Dio, quello che abbiamo è la libertà di poter servire i cristiani ovunque
si trovino: questa è una cosa molto importante di cui noi abbiamo bisogno. Certamente,
in altri Paesi musulmani non esiste questa reciprocità.
D.
– Come vive la comunità cristiana in Libia?
R. –
C’è grande rispetto. Noi abbiamo due chiese, una a Tripoli l’altra a Bengasi, ma il
nostro servizio pastorale è prevalentemente nei diversi campi di lavoro al di fuori
della città. Poi c’è un servizio sociale, anche di assistenza a questa massa di immigrati
che arriva dall’estero – sono tutti africani subsahariani – che vengono in Libia in
cerca di lavoro e in cerca di pace: sono persone molto povere. Quindi, noi cerchiamo
di accoglierli, preghiamo con loro e li assistiamo come possiamo. Certo, è una grossa
sfida l’immigrazione in questo Paese. E i libici, devo dire, che sono quanto mai comprensivi,
soprattutto nel concederci i permessi per visitare tanta gente nelle prigioni o nei
centri di raccolta. Purtroppo è un problema che ci colpisce direttamente, perché gli
immigrati cristiani li vediamo passare qui, dalla chiesa, e con tutta semplicità a
volte ci chiedono anche la benedizione. Perché? Perché devono attraversare il mare.
Certo, è una tragedia grande!
D. – Cosa si augura
per la Chiesa in Libia?
R. – Io mi auguro che veramente
possa corrispondere alle esigenze di una crescita di dialogo, perché c’è una forza
positiva dell’islam a cui noi dobbiamo veramente tendere la mano per crescere insieme
in questa comune volontà di liberarci da tutti i fondamentalismi. Quindi, queste forze
positive devono essere incoraggiate per camminare insieme nella libertà, nel servizio
all’uomo e nel rispetto dei diritti dell’uomo.