Cari fratelli e sorelle! San Marco ci racconta nel suo Vangelo che i discepoli,
scendendo dal monte della Trasfigurazione, discutevano tra di loro su che cosa volesse
dire “risorgere dai morti” (cfr Mc 9, 10). Prima il Signore aveva annunciato loro
la sua passione e la risurrezione dopo tre giorni. Pietro aveva protestato contro
l’annuncio della morte. Ma ora si domandavano che cosa potesse essere inteso con il
termine “risurrezione”. Non succede forse la stessa cosa anche a noi? Il Natale, la
nascita del Bambino divino ci è in qualche modo immediatamente comprensibile. Possiamo
amare il Bambino, possiamo immaginare la notte di Betlemme, la gioia di Maria, la
gioia di san Giuseppe e dei pastori e il giubilo degli angeli. Ma risurrezione – che
cosa è? Non entra nell’ambito delle nostre esperienze, e così il messaggio spesso
rimane, in qualche misura incompreso, una cosa del passato. La Chiesa cerca di condurci
alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei
simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo evento sconvolgente.
Nella Veglia Pasquale ci indica il significato di questo giorno soprattutto mediante
tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo – l’alleluia.
C’è innanzitutto
la luce. La creazione di Dio – ne abbiamo appena ascoltato il racconto biblico – comincia
con la parola: “Sia la luce!” (Gen 1, 3). Dove c’è la luce, nasce la vita, il caos
può trasformarsi in cosmo. Nel messaggio biblico, la luce è l’immagine più immediata
di Dio: Egli è interamente Luminosità, Vita, Verità, Luce. Nella Veglia Pasquale,
la Chiesa legge il racconto della creazione come profezia. Nella risurrezione si verifica
in modo più sublime ciò che questo testo descrive come l’inizio di tutte le cose.
Dio dice nuovamente: “Sia la luce!”. La risurrezione di Gesù è un’eruzione di luce.
La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del
mondo. Con la risurrezione il giorno di Dio entra nelle notti della storia. A partire
dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno.
Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la luce vera, più del fenomeno fisico di luce.
Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella
antica, trasforma il caos in cosmo.
Cerchiamo di comprendere questo ancora
un po’ meglio. Perché Cristo è Luce? Nell’Antico Testamento, la Torah era considerata
come la luce proveniente da Dio per il mondo e per gli uomini. Essa separa nella creazione
la luce dalle tenebre, cioè il bene dal male. Indica all’uomo la via giusta per vivere
veramente. Gli indica il bene, gli mostra la verità e lo conduce verso l’amore, che
è il suo contenuto più profondo. Essa è “lampada” per i passi e “luce” sul cammino
(cfr Sal 119, 105). I cristiani, poi, sapevano: in Cristo è presente la Torah, la
Parola di Dio è presente in Lui come Persona. La Parola di Dio è la vera Luce di cui
l’uomo ha bisogno. Questa Parola è presente in Lui, nel Figlio. Il Salmo 19 aveva
paragonato la Torah al sole che, sorgendo, manifesta la gloria di Dio visibilmente
in tutto il mondo. I cristiani capiscono: sì, nella risurrezione il Figlio di Dio
è sorto come Luce sul mondo. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita.
Egli ci fa riconoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli
ci indica la strada. Egli è il giorno di Dio che ora, crescendo, si diffonde per tutta
la terra. Adesso, vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce.
Nella
Veglia Pasquale, la Chiesa rappresenta il mistero di luce del Cristo nel segno del
cero pasquale, la cui fiamma è insieme luce e calore. Il simbolismo della luce è connesso
con quello del fuoco: luminosità e calore, luminosità ed energia di trasformazione
contenuta nel fuoco – verità e amore vanno insieme. Il cero pasquale arde e con ciò
si consuma: croce e risurrezione sono inseparabili. Dalla croce, dall’autodonazione
del Figlio nasce la luce, viene la vera luminosità nel mondo. Al cero pasquale noi
tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati, ai quali
in questo Sacramento la luce di Cristo viene calata nel profondo del cuore. La Chiesa
antica ha qualificato il Battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione,
come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione
di Cristo. Nel Battesimo Dio dice al battezzando: “Sia la luce!”. Il battezzando viene
introdotto entro la luce di Cristo. Cristo divide ora la luce dalle tenebre. In Lui
riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa
il buio. Con Lui sorge in noi la luce della verità e cominciamo a capire. Quando una
volta Cristo vide la gente che era convenuta per ascoltarlo e aspettava da Lui un
orientamento, ne sentì compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr Mc
6, 34). In mezzo alle correnti contrastanti del loro tempo non sapevano dove rivolgersi.
Quanta compassione Egli deve sentire anche del nostro tempo – a causa di tutti i grandi
discorsi dietro i quali si nasconde in realtà un grande disorientamento. Dove dobbiamo
andare? Quali sono i valori, secondo cui possiamo regolarci? I valori secondo cui
possiamo educare i giovani, senza dare loro delle norme che forse non resisteranno
o esigere delle cose che forse non devono essere loro imposte? Egli è la Luce. La
candela battesimale è il simbolo dell’illuminazione che nel Battesimo ci vien donata.
Così in quest’ora anche san Paolo ci parla in modo molto immediato. Nella Lettera
ai Filippesi dice che, in mezzo a una generazione tortuosa e stravolta, i cristiani
dovrebbero risplendere come astri nel mondo (cfr Fil 2, 15). Preghiamo il Signore
che il piccolo lume della candela, che Egli ha acceso in noi, la luce delicata della
sua parola e del suo amore in mezzo alle confusioni di questo tempo non si spenga
in noi, ma diventi sempre più grande e più luminosa. Affinché siamo con Lui persone
del giorno, astri per il nostro tempo.
Il secondo simbolo della Veglia Pasquale
– la notte del Battesimo – è l’acqua. Essa appare nella Sacra Scrittura, e quindi
anche nella struttura interiore del Sacramento del Battesimo, in due significati opposti.
C’è da una parte il mare che appare come il potere antagonista della vita sulla terra,
come la sua continua minaccia, alla quale Dio, però, ha posto un limite. Per questo
l’Apocalisse dice del mondo nuovo di Dio che lì il mare non ci sarà più (cfr 21, 1).
È l’elemento della morte. E così diventa la rappresentazione simbolica della morte
in croce di Gesù: Cristo è disceso nel mare, nelle acque della morte come Israele
nel Mar Rosso. Risorto dalla morte, Egli ci dona la vita. Ciò significa che il Battesimo
non è solo un lavacro, ma una nuova nascita: con Cristo quasi discendiamo nel mare
della morte, per risalire come creature nuove. L’altro modo in cui incontriamo
l’acqua è come sorgente fresca, che dona la vita, o anche come il grande fiume da
cui proviene la vita. Secondo l’ordinamento primitivo della Chiesa, il Battesimo doveva
essere amministrato con acqua sorgiva fresca. Senza acqua non c’è vita. Colpisce quale
importanza abbiano nella Sacra Scrittura i pozzi. Essi sono luoghi dove scaturisce
la vita. Presso il pozzo di Giacobbe, Cristo annuncia alla Samaritana il pozzo nuovo,
l’acqua della vita vera. Egli si manifesta a lei come il nuovo Giacobbe, quello definitivo,
che apre all’umanità il pozzo che essa attende: quell’acqua che dona la vita che non
s’esaurisce mai (cfr Gv 4, 5–15). San Giovanni ci racconta che un soldato con una
lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto – dal suo cuore trafitto –
uscì sangue e acqua (cfr Gv 19, 34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il
Battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù
è divenuto Egli stesso la sorgente. Il profeta Ezechiele in una visione aveva visto
il Tempio nuovo dal quale scaturisce una sorgente che diventa un grande fiume che
dona la vita (cfr Ez 47, 1–12) – in una Terra che sempre soffriva la siccità e la
mancanza d’acqua, questa era una grande visione di speranza. La cristianità degli
inizi capì: in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il vero, il vivente Tempio
di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo
fruttifica e rinnova il mondo; il grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che
rende feconda la terra. In un discorso durante la Festa delle capanne, Gesù ha però
profetizzato una cosa ancora più grande: “Chi crede in me … dal suo grembo sgorgheranno
fiumi di acqua viva” (Gv 7, 38). Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone
di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo
persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che
sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare
ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta
e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati
nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano:
persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle
quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata.
Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre
sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo
amore!
Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è di natura tutta particolare;
esso coinvolge l’uomo stesso. È il cantare il canto nuovo – l’alleluia. Quando un
uomo sperimenta una grande gioia, non può tenerla per sé. Deve esprimerla, trasmetterla.
Ma che cosa succede quando l’uomo viene toccato dalla luce della risurrezione e in
questo modo viene a contatto con la Vita stessa, con la Verità e con l’Amore? Di ciò
egli non può semplicemente parlare soltanto. Il parlare non basta più. Egli deve cantare.
La prima menzione del cantare nella Bibbia, la troviamo dopo la traversata del Mar
Rosso. Israele si è sollevato dalla schiavitù. È salito dalle profondità minacciose
del mare. È come rinato. Vive ed è libero. La Bibbia descrive la reazione del popolo
a questo grande evento del salvamento con la frase: “Il popolo credette nel Signore
e in Mosè suo servo” (cfr Ex 14, 31). Ne segue poi la seconda reazione che, con una
specie di necessità interiore, emerge dalla prima: “Allora Mosè e gli Israeliti cantarono
questo canto al Signore…”. Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo
dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche
noi mediante la potenza di Dio siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla
vita vera.
Per la storia del canto di Mosè dopo la liberazione di Israele dall’Egitto
e dopo la risalita dal Mar Rosso, c’è un parallelismo sorprendente nell’Apocalisse
di san Giovanni. Prima dell’inizio degli ultimi sette flagelli imposti alla terra,
appare al veggente qualcosa “come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano
vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare
di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il
canto dell’Agnello…” (Ap 15, 2s). Con questa immagine è descritta la situazione dei
discepoli di Gesù Cristo in tutti i tempi, la situazione della Chiesa nella storia
di questo mondo. Considerata umanamente, essa è in se stessa contraddittoria. Da una
parte, la comunità si trova nell’Esodo, in mezzo al Mar Rosso. In un mare che, paradossalmente,
è insieme ghiaccio e fuoco. E non deve forse la Chiesa, per così dire, camminare sempre
sul mare, attraverso il fuoco e il freddo? Umanamente parlando, essa dovrebbe affondare.
Ma, mentre cammina ancora in mezzo a questo Mar Rosso, essa canta – intona il canto
di lode dei giusti: il canto di Mosè e dell’Agnello, in cui s’accordano l’Antica e
la Nuova Alleanza. Mentre, tutto sommato, dovrebbe affondare, la Chiesa canta il canto
di ringraziamento dei salvati. Essa sta sulle acque di morte della storia e tuttavia
è già risorta. Cantando essa si aggrappa alla mano del Signore, che la tiene al di
sopra delle acque. Ed essa sa che con ciò è sollevata fuori dalla forza di gravità
della morte e del male – una forza dalla quale altrimenti non ci sarebbe via di scampo
– sollevata e attirata dentro la nuova forza di gravità di Dio, della verità e dell’amore.
Al momento si trova ancora tra i due campi gravitazionali. Ma da quando Cristo è risorto,
la gravitazione dell’amore è più forte di quella dell’odio; la forza di gravità della
vita è più forte di quella della morte. Non è forse questa veramente la situazione
della Chiesa di tutti i tempi? Sempre c’è l’impressione che essa debba affondare,
e sempre è già salvata. San Paolo ha illustrato questa situazione con le parole: “Siamo
… come moribondi, e invece viviamo”, (2 Cor 6, 9). La mano salvifica del Signore ci
sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei
risorti: alleluia! Amen.