Due pagine di storia memorabili: i pellegrinaggi di Paolo VI e Giovanni Paolo II in
Terra Santa
In visita e in preghiera dove il Vangelo si fece carne e spirito, terra e pietra.
Nel 1964 e nel 2000, la Terra Santa ha vissuto due pagine di storia memorabili: il
pellegrinaggio di Paolo VI - primo successore di Pietro a tornare sui luoghi della
salvezza cristiana - e il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II, suddiviso in due tappe:
prima al Monte Sinai e poi a Betlemme e Gerusalemme. Ora, anche Benedetto XVI si appresta
a rivivere l’emozione spirituale di visitare i siti nei quali Cristo annunciò il Vangelo
e la Chiesa mosse i primi passi della sua missione bimillenaria. Alessandro De
Carolis rievoca in questo servizio le tappe principali dei viaggi in Terra Santa
di Papa Montini e di Papa Wojtyla:
(musica)
“Voi
avete compreso che il mio viaggio non è stato soltanto un fatto singolare e spirituale:
è diventato un avvenimento, che può avere una grande importanza storica. È un anello
che si collega ad una tradizione secolare...”. “Il mio
mi
ha condotto nella Terra che ha visto la nascita, la vita, la morte e la risurrezione
di Gesù Cristo e i primi passi della Chiesa. Inesprimibili sono la gioia e la riconoscenza
che porto nell'animo per questo dono del Signore, da me tanto desiderato…”.
La
differenza di contenuto tra queste due affermazioni è soprattutto nello stile. Per
il resto, i 36 anni che le separano sono attraversate dalla medesima consapevolezza
e dal medesimo soffio dell’anima. Paolo VI e Giovanni Paolo II le pronunciano rispettivamente
il 6 gennaio 1964 e il 29 marzo del 2000. Papa Wojtyla sta parlando ai fedeli nella
prima udienza generale al rientro dalla Terra Santa, viaggio concluso tre giorni prima.
Per Papa Montini è addirittura questione di ore, di minuti: quei pochi trascorsi dall’arrivo
e che subito dopo lo vedono letteralmente scortato in Vaticano dalla folla riversatasi
in strada fra Ciampino e San Pietro.
(musica)
Quello
che al ritorno Paolo VI definisce - con la naturale modestia che stavolta vela appena
l’importanza delle sue parole - “forse un inizio di nuovi eventi che possono essere
grandi e benefici per la Chiesa e per l’umanità”, era cominciato tre giorni prima.
Da Roma - primo Pontefice a salire su un aereo - il DC8 dell’Alitalia lascia Papa
Montini a Gerusalemme. E’ il 4 gennaio e le immagini dell’epoca mostrano l’auto papale
entrare nella Città Santa dalla Porta di Damasco e ondeggiare quasi per l’urto della
folla calorosa e cordiale. I moderni diktat della sicurezza non hanno ancora allontanato
dai fedeli un Papa che ha finalmente ha poggiato i piedi sulla terra che lui chiamerà
“il quinto Vangelo”. Dirà:
“Abbiam voluto
che il Nostro viaggio in Palestina assumesse il significato di un incontro particolare,
fervoroso, ardente con Cristo (…) Nella sua volontà, liberamente accettata, è la pace
del mondo. Questo abbiamo invocato, prostrati sulla nuda pietra del Sepolcro, sul
Calvario e al Getsemani, nel Cenacolo e a Nazareth. E sulla Grotta della Natività
di Betlem abbiamo chiesto per tutti gli uomini di buona volontà il dono della pace,
vera e duratura”.
Evento nell’evento, il giorno
dopo, 5 gennaio 1964, un saluto affettuoso cambia i rapporti ecumenici tra i cattolici
e gli ortodossi. La storia fa un balzo in avanti di novecento anni, quando il mondo
assiste all’“abbraccio di pace” tra Paolo VI e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli,
Athenagoras, che cancella secoli d’incomunicabilità, di contrasti, di
reciproche scomuniche:
“Ho avuto la grande fortuna
stamane di abbracciare, dopo secoli e secoli, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli,
e di scambiare con lui parole di pace, di fraternità, di desiderio della unione, della
concordia e dell’onore a Cristo e di vantaggioso servizio per l’intera famiglia umana.
Speriamo che questi inizi diano buon frutto; il seme germogli e giunga a maturità”.
Quell’abbraccio e quel pellegrinaggio si scolpiscono nella
memoria di tutti. Anche in quella dei giornalisti più navigati che seguono il viaggio
e sono poco o nulla inclini a enfasi religiose nelle loro cronache. Così accade che
il futuro Nobel della Letteratura, Eugenio Montale, grande poeta e uomo lontano dalla
fede, scriva nella sua corrispondenza dalla Terra Santa per il Corriere della sera:
“A chi mi chiede se un viaggio in Terrasanta riesce a confermare o a infiacchire la
fede di un cristiano d’altre terre io posso rispondere: ai cristiani di scarsa fede
il viaggio sarà certamente utile, perché solo un cieco e un sordo potrebbero negare
che qui qualcosa è accaduto”.
(musica)
Se
la visita del gennaio ‘64 portò Papa Montini a Gerusalemme, Nazareth e Betlemme, quella
che Giovanni Paolo II compie nel 2000 sui “luoghi della Salvezza” si sdoppia in un
lungo, intenso pellegrinaggio, emblema di una Chiesa che vuole tornare alle proprie
radici alle soglie di quel “Tertio Millennio Adveniente”. E’ l’inizio del Grande Giubileo,
quando Papa Wojtyla si reca dal 24 al 26 febbraio in Egitto e sul Monte Sinai, luogo
dell’incontro tra Dio e Abramo. Un mese più tardi, il 20 marzo, Giovanni Paolo II
sbarca ad Amman, in Giordania, e sale sul Monte Nebo, da dove Abramo abbraccerà solo
con lo sguardo la Terra promessa. Giovanni Paolo II la raggiunge e la percorre in
un crescendo spirituale. La Valle del Giordano e poi Betlemme, centro giubilare dell’Incarnazione
di Cristo ed epicentro di un dramma, il conflitto israelo-palestinese, simboleggiato
dal campo-profughi visitato dal Pontefice. Infine, la Città Santa:
“Il
ricordo di Gerusalemme è indelebile nel mio animo. Grande è il mistero di questa città,
in cui la pienezza del tempo si è fatta, per così dire, ‘pienezza dello spazio’ (…)
Sul Calvario l'Incarnazione si è manifestata come Redenzione, secondo l'eterno disegno
di Dio”.
Commuove la visita di Giovanni Paolo
II al Monte delle Beatitudini, al Cenacolo, la sua salita al Calvario compiuta da
un uomo già fisicamente provato, la Messa alla Basilica del Santo Sepolcro. Un itinerario
di fede che il Papa polacco compie sotto gli occhi del mondo e che tocca un suo, atteso,
culmine nell’incontro con l’ebraismo. Anche Paolo VI aveva salutato a Gerusalemme
i “figli del Popolo dell’Alleanza”, ma ora i tempi sono mutati. Giovanni Paolo II
si rivolge a quelli che 14 anni prima ha definito “fratelli maggiori” e parla con
la coscienza di chi ha conosciuto in prima persona gli orrori dell’antisemitismo,
non perdendo occasione per condannarli senza riserve. Ora l’occasione è unica, rendere
omaggio alle vittime di quell’orrore nel luogo stesso della memoria ebraica:
“A
Yad Vashem, Memoriale della Shoah, ho reso omaggio ai milioni di ebrei vittime del
nazismo. Ancora una volta ho espresso profondo dolore per quella terrificante tragedia
ed ho ribadito che "noi vogliamo ricordare" per impegnarci insieme - ebrei, cristiani
e uomini tutti di buona volontà - a sconfiggere il male con il bene, per camminare
sulla via della pace”. Ciò che il Papa polacco dice della
Shoah si fissa in modo indelebile a un’altra immagine che fa il giro del mondo: Giovanni
Paolo II fermo in silenzio, leggermente incurvato, davanti al “Muro del pianto” di
Gerusalemme, le mani poggiate sulla pietra. E’ il 26 marzo, ultimo giorno del viaggio,
e il Papa si congeda dal suo “viaggio della speranza” con questa preghiera, lasciata
tra i bordi frastagliati del Muro: “Dio dei nostri padri, tu
hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse
portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per
il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire
questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in
un'autentica fraternità con il popolo dell'alleanza. Amen”. (musica)