2009-03-08 12:25:32

Due pagine di storia memorabili: i pellegrinaggi di Paolo VI e Giovanni Paolo II in Terra Santa


In visita e in preghiera dove il Vangelo si fece carne e spirito, terra e pietra. Nel 1964 e nel 2000, la Terra Santa ha vissuto due pagine di storia memorabili: il pellegrinaggio di Paolo VI - primo successore di Pietro a tornare sui luoghi della salvezza cristiana - e il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II, suddiviso in due tappe: prima al Monte Sinai e poi a Betlemme e Gerusalemme. Ora, anche Benedetto XVI si appresta a rivivere l’emozione spirituale di visitare i siti nei quali Cristo annunciò il Vangelo e la Chiesa mosse i primi passi della sua missione bimillenaria. Alessandro De Carolis rievoca in questo servizio le tappe principali dei viaggi in Terra Santa di Papa Montini e di Papa Wojtyla:RealAudioMP3

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“Voi avete compreso che il mio viaggio non è stato soltanto un fatto singolare e spirituale: è diventato un avvenimento, che può avere una grande importanza storica. È un anello che si collega ad una tradizione secolare...”.

“Il mio mi ha condotto nella Terra che ha visto la nascita, la vita, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo e i primi passi della Chiesa. Inesprimibili sono la gioia e la riconoscenza che porto nell'animo per questo dono del Signore, da me tanto desiderato…”.

 
La differenza di contenuto tra queste due affermazioni è soprattutto nello stile. Per il resto, i 36 anni che le separano sono attraversate dalla medesima consapevolezza e dal medesimo soffio dell’anima. Paolo VI e Giovanni Paolo II le pronunciano rispettivamente il 6 gennaio 1964 e il 29 marzo del 2000. Papa Wojtyla sta parlando ai fedeli nella prima udienza generale al rientro dalla Terra Santa, viaggio concluso tre giorni prima. Per Papa Montini è addirittura questione di ore, di minuti: quei pochi trascorsi dall’arrivo e che subito dopo lo vedono letteralmente scortato in Vaticano dalla folla riversatasi in strada fra Ciampino e San Pietro.

 
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Quello che al ritorno Paolo VI definisce - con la naturale modestia che stavolta vela appena l’importanza delle sue parole - “forse un inizio di nuovi eventi che possono essere grandi e benefici per la Chiesa e per l’umanità”, era cominciato tre giorni prima. Da Roma - primo Pontefice a salire su un aereo - il DC8 dell’Alitalia lascia Papa Montini a Gerusalemme. E’ il 4 gennaio e le immagini dell’epoca mostrano l’auto papale entrare nella Città Santa dalla Porta di Damasco e ondeggiare quasi per l’urto della folla calorosa e cordiale. I moderni diktat della sicurezza non hanno ancora allontanato dai fedeli un Papa che ha finalmente ha poggiato i piedi sulla terra che lui chiamerà “il quinto Vangelo”. Dirà:

 
“Abbiam voluto che il Nostro viaggio in Palestina assumesse il significato di un incontro particolare, fervoroso, ardente con Cristo (…) Nella sua volontà, liberamente accettata, è la pace del mondo. Questo abbiamo invocato, prostrati sulla nuda pietra del Sepolcro, sul Calvario e al Getsemani, nel Cenacolo e a Nazareth. E sulla Grotta della Natività di Betlem abbiamo chiesto per tutti gli uomini di buona volontà il dono della pace, vera e duratura”.

 
Evento nell’evento, il giorno dopo, 5 gennaio 1964, un saluto affettuoso cambia i rapporti ecumenici tra i cattolici e gli ortodossi. La storia fa un balzo in avanti di novecento anni, quando il mondo assiste all’“abbraccio di pace” tra Paolo VI e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Athenagoras, che cancella secoli d’incomunicabilità, di contrasti, di reciproche scomuniche:

 
“Ho avuto la grande fortuna stamane di abbracciare, dopo secoli e secoli, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e di scambiare con lui parole di pace, di fraternità, di desiderio della unione, della concordia e dell’onore a Cristo e di vantaggioso servizio per l’intera famiglia umana. Speriamo che questi inizi diano buon frutto; il seme germogli e giunga a maturità”. 
 
Quell’abbraccio e quel pellegrinaggio si scolpiscono nella memoria di tutti. Anche in quella dei giornalisti più navigati che seguono il viaggio e sono poco o nulla inclini a enfasi religiose nelle loro cronache. Così accade che il futuro Nobel della Letteratura, Eugenio Montale, grande poeta e uomo lontano dalla fede, scriva nella sua corrispondenza dalla Terra Santa per il Corriere della sera: “A chi mi chiede se un viaggio in Terrasanta riesce a confermare o a infiacchire la fede di un cristiano d’altre terre io posso rispondere: ai cristiani di scarsa fede il viaggio sarà certamente utile, perché solo un cieco e un sordo potrebbero negare che qui qualcosa è accaduto”.

 
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Se la visita del gennaio ‘64 portò Papa Montini a Gerusalemme, Nazareth e Betlemme, quella che Giovanni Paolo II compie nel 2000 sui “luoghi della Salvezza” si sdoppia in un lungo, intenso pellegrinaggio, emblema di una Chiesa che vuole tornare alle proprie radici alle soglie di quel “Tertio Millennio Adveniente”. E’ l’inizio del Grande Giubileo, quando Papa Wojtyla si reca dal 24 al 26 febbraio in Egitto e sul Monte Sinai, luogo dell’incontro tra Dio e Abramo. Un mese più tardi, il 20 marzo, Giovanni Paolo II sbarca ad Amman, in Giordania, e sale sul Monte Nebo, da dove Abramo abbraccerà solo con lo sguardo la Terra promessa. Giovanni Paolo II la raggiunge e la percorre in un crescendo spirituale. La Valle del Giordano e poi Betlemme, centro giubilare dell’Incarnazione di Cristo ed epicentro di un dramma, il conflitto israelo-palestinese, simboleggiato dal campo-profughi visitato dal Pontefice. Infine, la Città Santa:

 
“Il ricordo di Gerusalemme è indelebile nel mio animo. Grande è il mistero di questa città, in cui la pienezza del tempo si è fatta, per così dire, ‘pienezza dello spazio’ (…) Sul Calvario l'Incarnazione si è manifestata come Redenzione, secondo l'eterno disegno di Dio”.

 
Commuove la visita di Giovanni Paolo II al Monte delle Beatitudini, al Cenacolo, la sua salita al Calvario compiuta da un uomo già fisicamente provato, la Messa alla Basilica del Santo Sepolcro. Un itinerario di fede che il Papa polacco compie sotto gli occhi del mondo e che tocca un suo, atteso, culmine nell’incontro con l’ebraismo. Anche Paolo VI aveva salutato a Gerusalemme i “figli del Popolo dell’Alleanza”, ma ora i tempi sono mutati. Giovanni Paolo II si rivolge a quelli che 14 anni prima ha definito “fratelli maggiori” e parla con la coscienza di chi ha conosciuto in prima persona gli orrori dell’antisemitismo, non perdendo occasione per condannarli senza riserve. Ora l’occasione è unica, rendere omaggio alle vittime di quell’orrore nel luogo stesso della memoria ebraica:

 
“A Yad Vashem, Memoriale della Shoah, ho reso omaggio ai milioni di ebrei vittime del nazismo. Ancora una volta ho espresso profondo dolore per quella terrificante tragedia ed ho ribadito che "noi vogliamo ricordare" per impegnarci insieme - ebrei, cristiani e uomini tutti di buona volontà - a sconfiggere il male con il bene, per camminare sulla via della pace”.
 
Ciò che il Papa polacco dice della Shoah si fissa in modo indelebile a un’altra immagine che fa il giro del mondo: Giovanni Paolo II fermo in silenzio, leggermente incurvato, davanti al “Muro del pianto” di Gerusalemme, le mani poggiate sulla pietra. E’ il 26 marzo, ultimo giorno del viaggio, e il Papa si congeda dal suo “viaggio della speranza” con questa preghiera, lasciata tra i bordi frastagliati del Muro:
 
“Dio dei nostri padri, 
tu hai scelto Abramo e la sua discendenza 
perché il tuo Nome fosse portato alle genti:
noi siamo profondamente addolorati 
per il comportamento di quanti 
nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli,
e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci 
in un'autentica fraternità
con il popolo dell'alleanza. 
Amen”. 
 
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