Iraq. Mons. Najim: più timori che speranze dal ritiro Usa
Timori e speranze accompagnano l’annuncio, ieri a Washington, del ritiro definitivo
delle truppe americane dall’Iraq. Incontrando i marines in partenza per l’Afghanistan,
il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha assicurato che entro il 31 agosto
del 2010 l’esercito americano lascerà il Paese, a ben sei anni dall’inizio della guerra.
Il rimpatrio dei 142 mila militari americani avverrà in due tappe per ragioni di sicurezza,
ma il piano del ritiro suscita da più parti perplessità: il timore è che il Paese
venga lasciato senza controllo in condizioni di instabilità e violenza. Claudia
Di Lorenzi ne ha parlato con mons. Philip Najim, visitatore apostolico
per i fedeli Caldei in Europa:
R. – Non
dimentichiamo che le forze della coalizione hanno dichiarato ufficialmente che sono
una forza occupatrice del Paese, perciò lasciare oggi l’Iraq da una parte va bene,
ma dall’altra no, perché oggi l’Iraq non ha una forza capace di difendere il popolo
iracheno, perché si tratta di un esercito debole, che non è ancora attrezzato, non
è capace di dirigere militarmente questo Paese. E’ un esercito che non è al 100% patriottico,
nazionale; abbiamo bisogno di una riconciliazione tra le sezioni politiche che possano
creare un esercito che guardi l’interesse del popolo iracheno, per poter creare uno
Stato indipendente, sovrano, che possa difendere se stesso e possa anche realizzare
una vita democratica.
D. – Com’è stata accolta la
notizia dalla popolazione? Prevalgono i timori o le speranze?
R.
– Ambedue i sentimenti si trovano adesso nei cuori del popolo iracheno. Il timore
c’è perché non possiamo lasciare, in questo momento, l’Iraq da solo con la sua debolezza,
perché deve acquisire una vita sana, patriottica, nazionale, che possa realizzare
una politica che dev’essere a favore dell’uomo, della crescita dell’Iraq; uno Stato
capace di dirigere l’economia. Perciò ci sono timori e ci sono anche speranze, ma
più timori che speranze.
D. – Quali possibili ripercussioni
sulla situazione dei cristiani nel Paese? Si teme un inasprimento delle violenze e
delle persecuzioni?
R. – La sofferenza coinvolge
tutti gli iracheni. Le persecuzioni le hanno subite tutte le etnie del popolo iracheno,
sia quella musulmana che quella cristiana, e continuano a subirle, purtroppo, perché
c’è uno Stato debole. Durante tutti questi anni di presenza delle truppe americane,
i cristiani hanno subito dei danni enormi: sono stati colpiti nelle loro Chiese, sono
stati colpiti anche nelle personalità ecclesiastiche che hanno dato testimonianza
della loro fede, del loro amore per la loro patria; se questo Paese non acquista la
sua forza, la sua dignità e la sua sovranità, attraverso un esercito che difende la
patria, non sarà possibile andare avanti.
D. – Dall’inizio
della guerra, sei anni fa, com’è cambiata la situazione dei cristiani in Iraq?
R.
– Sono stati fatti dei piccoli passi in avanti, attraverso il governo attuale dell’Iraq,
che ha provato a creare una situazione di sicurezza, senza riuscirci del tutto. Perciò,
questi sei anni di guerra, d’invasione, hanno creato una situazione molto difficile
per i cristiani: migliaia e migliaia di essi hanno lasciato il Paese per poter trovare
una vita più sicura, perché abbiamo veramente visto – in questi sei anni – che la
persona irachena ha perso la sua dignità all’interno del suo Paese, attraverso l’invasione
e i vari gruppi politici, che non hanno posto l’interesse del popolo iracheno sopra
ogni cosa. Questa situazione, per sei anni, ha creato un grande disagio per l’Iraq,
e i Paesi europei non hanno fatto molto.
D. – Quale auspicio
per il Paese?
R. – Chiederei alla Comunità Internazionale
di poter intervenire di più, di poter aiutare il popolo iracheno, per poter così acquisire
la pace e per potersi inserire di nuovo nella Comunità Internazionale dando il suo
contributo. Perché il popolo iracheno ha alle spalle una storia enorme, ha una grande
cultura, solo che ha subito gravi danni per trent’anni, tra embargo, guerre e invasioni.
Il popolo iracheno è stanco, continua a soffrire, gli manca la pace, la sicurezza
e la stabilità, non riesce a usufruire delle risorse che si trovano nel Paese; l’Iraq
è un Paese ricco e può dare anche la sua testimonianza attraverso la sua presenza
nella regione del Medio Oriente. Dobbiamo incoraggiare il nostro popolo a rimanere
nel Paese, per poter contribuire a ristabilire questa sicurezza, ricostruire l’Iraq
insieme, così come l’abbiamo costruito nella storia, e lavorare tutti per la patria,
per la bandiera, per il bene del popolo iracheno.