Mons. Ravasi: il web e l'informatica vanno umanizzati, perché la vita è molto di più
di ciò che appare su uno schermo
L'aggressività dei messaggi mediatici, subìta senza un'opportuna lettura critica,
può portare a una "lobotomia dell'anima". Il rischio viene paventato dall’arcivescovo
Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che ieri
ha partecipato all'incontro organizzato dalla Associazione Athenaeum, presso
l’Università “La Sapienza" di Roma, sul tema “Capacità di intendere e di volere".
L’influenza dei media sul giudizio e sulle scelte”. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R.
- I giovani sono grandi fruitori, ormai, della rete informatica. Sono anche consumatori
di televisione, di questi mezzi che stanno "sagomando", un po’, la loro identità e
il loro profilo. E in verità, questa strada così semplice, così facile, ha dei grandi
rischi, continuamente in agguato. Soprattutto, il rischio fondamentale di perdere
il calore del dialogo e dell’incontro interpersonale.
D.
- E' possibile mantenere la capacità di intendere e di volere, di fronte a messaggi
che a volte intendono plasmare i giovani a loro immagine?
R.
- Si è persino usato - da parte di studiosi di questi fenomeni - l’espressione di
“lobotomia dell’anima”: questi mezzi cercano di ritagliare degli spazi entro i quali
collocare la persona, escludendo tutto ciò che non appartiene al loro progetto, che
tante volte è un progetto squisitamente commerciale.
D.
- Questo processo di sviluppo televisivo, informatico, è irreversibile…
R.
- Gli studiosi dei media dicono che probabilmente non abbiamo ancora raggiunto tutte
le capacità che questi mezzi hanno - che sono anche capacità, certe volte, di grande
efficacia per l’umanità, ma anche di terribile rischio per l’umanità stessa. Pensiamo
ad esempio cosa sarà in futuro l’interattività, questo dialogo sempre però un dialogo
freddo, mai un dialogo diretto. E allora, per questo motivo cerchiamo di riportare
ancora il giovane alla vita. La vita è molto più di quanto appaia su uno schermo.
D.
- Ritiene che si possa perdere il gusto per l’incontro vero, il gusto di guardarsi
negli occhi, stringersi la mano…
R. - Si stanno perdendo
tre tipi di incontri possibili: il primo incontro è quello con la pagina scritta,
che tu leggi sfogliandola, ritornando, nel silenzio, ai grandi testi del passato.
Leggere su una pagina elettronica è ben diverso: si perde l’incontro soprattutto con
l’altro, e da ultimo si perde anche l’incontro con il silenzio, cioè con l’assenza
di immagini e di parole per tentare di scoprire qualcosa che è oltre e altro la parola
e l’evento puramente informatico.
D. - Perdendo tutto
ciò, l’uomo rischia di perdere in un certo senso se stesso, ossia la sua dimensione
anche di comunione, di comunità?
R. - Se l’uomo,
di sua natura, come ha sempre detto un po’ tutta la cultura, è un essere aperto, ha
bisogno - come dice la Bibbia - di un aiuto che gli sia simile. Se noi amputiamo questa
capacità di comunicazione e di comunione, indubbiamente avremo un uomo molto più povero
e questa relazione non è sufficientemente assicurata dalla relazione informatica,
che è sempre esterna, estrinseca, fredda…
D. - E
lo sarà sempre? Non è possibile umanizzarla, questa dimensione informatica? Cioè,
non potrà mai sostituire la dimensione puramente umana?
R.
- Forse la tentazione di qualche mezzo di comunicazione è quella di ridurre l’uomo
ad essere molto più semplificato nelle sue relazioni e di avere esperienze solo di
tipo superficiale. Per fortuna, però, io ritengo che sia sempre vera una frase che
grande Pascal aveva detto: l’uomo supera infinitamente l’uomo. Lo riduciamo un oggetto,
lo facciamo schiavo sotto le dittature eppure, egli, alla fine si innamora della bellezza
di un paesaggio oppure tenta anche di scoprire il mistero dell’universo, dell’infinito
e di Dio.