“Il seme di Nassiriya”: un libro racconta come della tragica strage in Iraq non sia
rimasto solo sangue e disperazione ma l’impegno di un’associazione per bambini
E’ stato presentato in questi giorni a Roma, in Campidoglio, il libro “Il seme di
Nassiriya”, in ricordo dei 19 militari italiani caduti in Iraq il 12 novembre del
2003, in un attentato kamikaze. Ce ne parla Alessandra De Gaetano:
I proventi
del libro, scritto a quattro mani da Margherita Coletta, vedova del brigadiere dei
carabinieri Giuseppe Coletta, e dalla giornalista di Avvenire Lucia Bellaspiga,
saranno devoluti all’associazione Giuseppe Margherita Coletta, che sostiene i bambini
in diverse parti del mondo. Cos’è “Il seme di Nassiriya”? Ascoltiamo Margherita
Coletta: “E’ tratto dal Vangelo; il seme, se non
muore, non porta nessun frutto, come è stata appunto la vita di Giuseppe. La cosa
più importante è quell’affidarsi a Cristo, perché senza di lui non si riesce a fare
niente, e poi anche all’associazione che è nata. Quindi, dietro ad un grande dolore
c’è qualcosa di ancora più grande; non è che abbracciare la croce di Cristo significa
non soffrire, però si dà una motivazione diversa alle cose, quindi anche la gioia
di vivere, di crescere mia figlia, è questa la cosa più importante adesso. La vita
va vissuta in ogni modo, comunque essa sia”. Ascoltiamo ora
il vivo ricordo degli istanti precedenti la strage di Nassiriya, nelle parole dell’ex
appuntato dei carabinieri Antonio Altavilla, che in quell’esplosione
rimase gravemente ferito: “La mattinata era iniziata tranquilla;
tutto ad un tratto abbiamo sentito degli spari, un nostro carabiniere ha risposto
al fuoco e, in una frazione di secondo, c’è stata la fine. La fine di tutto quello
che avevamo costruito in quattro mesi, di tutto quello che era nato fra noi e la popolazione
irachena; quindi fumo, fuoco, sangue e morte. Quello che è rimasto è comunque un pensiero
a tutta la popolazione irachena onesta, che purtroppo continua a subire attentati”. Un
messaggio di vicinanza, dunque, alla popolazione e alle forze armate irachene, vittime
di numerosi attentati terroristici. Che significato hanno questi attacchi mirati alle
forze armate e di polizia? Pino Scaccia, inviato di guerra del
TG1: “I terroristi in Iraq cercano di far passare la voglia
ai giovani iracheni di stare dalla parte dello Stato. Anche in Afghanistan c’è lo
stesso meccanismo: si colpiscono le reclute – sia dell’esercito che della polizia
– proprio per evitare che diventino esercito e polizia veri, che passino dall’altra
parte. Il giorno che andassero via, le forze internazionali, secondo me, si spargerebbe
molto sangue; le forze internazionali stanno in mezzo ai due gruppi – sciiti e sunniti
-, per cui, senza quest’interposizione, io sono purtroppo convinto che ci sarà una
grande strage ed una strage proprio in tutto il Paese, solo che forse noi non lo sapremo
mai”. “Il seme che non muore non produce frutto”, recita il
Vangelo; quali sono stati, dunque, i frutti che i militari italiani hanno lasciato
a Nassiriya? Tony Capuozzo, inviato di guerra del TG5: “I
nostri han lasciato, intanto, un buon ricordo, per essersi mossi con rispetto della
popolazione locale, per aver sempre cercato di coniugare la difesa dei propri compiti
con la crescita di una capacità autonoma degli iracheni di governarsi. Poi, sicuramente,
c’è il ricordo dei tanti piccoli gesti; ricordo di essere andato tante volte nelle
case degli iracheni, con questi uomini, e non è mai successo di vederli entrare sfondando
a calci una porta, senza derogare al fatto di voler essere rispettati, di volere che
siano rispettate le regole. Si voleva costruire questo rispetto su una base di reciprocità,
che è il rispetto delle comunità locali, delle usanze locali, delle autorità locali.
E questa, sicuramente, è una delle verità che dovunque ci siano stati e ci siano dei
contingenti militari italiani viene vissuta”.