Con “The Dust of the Time” di Theo Angelopoulos, “Tatarak” di Andrzej Wajda, e “Eden
à l’ouest” di Costa-Gavras, a Berlino entrano in scena in grandi maestri del cinema.
Il primo racconta la dissoluzione di una coppia (e anche di un sistema politico, quello
socialista) sullo sfondo del XX secolo; il secondo tratteggia la drammatica fuga di
una donna da un matrimonio fallimentare; il terzo segue l’odissea di un migrante moderno.
I tre anziani registi, ciascuno a suo modo - Angelopoulos lavorando sui grandi spazi
scenografici della Storia, Wajda sugli spazi chiusi della famiglia, Costa-Gavras sull’urgenza
militante della contemporaneità – ci ricordano il dovere morale del cinema, proprio
nel momento in cui al Festival si mettono in luce le opere di alcuni giovani talenti.
Nei nostri interventi precedenti abbiamo parlato dell’uruguaiano “Gigante” di Adrián
Biniez, del tedesco “Alle anderen” di Maren Ade, dell’iraniano “About Elly” di Ashgar
Farhadi, di “The Messenger” di Oren Moverman. In questi due ultimi giorni altri due
film si sono aggiunti alla lista delle sorprese. Entrambi parlano della violenza contro
le donne, ma in termini diametralmente opposti. “Katalin Varga” dell’inglese Peter
Strickland trasporta lo spettatore nelle cupe atmosfere dei Carpazi rumeni, fra paesaggi
silvestri e immagini bucoliche, attraversate da esseri umani in preda a pulsioni arcaiche.
Una donna vede svelato il suo segreto (suo figlio è il frutto di uno stupro) e distrutta
la sua quiete familiare. Cacciata da casa, partirà dunque sulla strada della vendetta
insieme al bambino, seminando vento e raccogliendo tempesta. Il film unisce ad un
rigoroso rispetto della forma nella composizione delle inquadrature, un montaggio
secco ed essenziale; e soprattutto un commento sonoro inquietante ed efficace, che
induce alla premonizione di un destino segnato. “La teta asustada” della peruviana
Claudia Llosa è invece ambientato alla periferia di Lima dove vivono, in baraccopoli
disseminate lungo i versanti della montagna, le migliaia di indios che si sono inurbati.
Le ragioni che li hanno spinti alla città sono quelle della povertà e del bisogno,
ma talvolta anche quelle della violenza subita. La protagonista è infatti figlia di
una donna vittima anni prima degli stupri e delle torture dei guerriglieri maoisti
di Sendero Luminoso: la paura si è trasmessa dall’una all’altra come una discendenza
genetica e la ragazza vive nella chiusura e nella diffidenza. Solo l’amore di un’apertura
al mondo riuscirà a guarire la sua anima malata. Attenta agli spazi e alla luce del
Perù contemporaneo, la regista coglie con sorprendente verità non solo l’umiliazione
e lo sconforto degli esseri umani, ma anche la vitalità di una cultura antica, ritratta
nei suoi riti, nella sua lingua, nel suo desiderio di emancipazione. (Da Berlino,
Luciano Barisone per Radio Vaticana)