Mons. Padovese: la comunità cattolica turca testimoni il Vangelo senza paura
Si chiude giovedì la visita ad Limina dei vescovi della Turchia. I presuli sono stati
ricevuti ieri in Vaticano da Benedetto XVI, che ha esortato i fedeli cristiani e musulmani
a lavorare assieme per la pace e la giustizia. Il Papa ha inoltre chiesto alle autorità
di Ankara di riconoscere giuridicamente la Chiesa Cattolica e ciò ha vantaggio di
tutta la società turca. Sulla realtà della comunità cattolica in Turchia, Lisa
Zengarini ha intervistato il presidente della Conferenza episcopale turca, mons.
Luigi Padovese:
R.
- È una comunità espressa dai diversi riti e da diverse confessioni che la compongono.
È un po’ l’erede delle antiche Chiese che hanno abitato in questa regione. Numericamente
molto ridotte, però significative sia per il passato storico che ciascuna di loro
possiede, che per la teologia, la liturgia che le differenzia e le qualifica. Un tesoro
che non deve essere perso.
D. - Lo Stato turco è formalmente uno Stato
laico. Di fatto però in questi anni i cristiani vivono in un clima non privo di tensioni:
in particolare, dopo l’uccisione di don Santoro nel 2005, attacchi a religiosi cristiani
stranieri sono aumentati. Ci può dire cosa c’è dietro a queste aggressioni e se il
viaggio apostolico del Santo Padre nel 2006 ha cambiato qualcosa?
R.
- Certamente il viaggio del Santo Padre ha concorso ad un clima più sereno. Noto comunque
che le tensioni dei mesi passati sono più legate a fermenti di tipo nazionalistico
che non strettamente religioso. I nostri rapporti con i fratelli e le autorità musulmane
sono molto buoni. Il clima è decisamente più sereno, anche se permangono atti vandalici
sporadici che si esprimono nel gettare rifiuti davanti alle chiese. Ciò testimonia
che c’è ancora un po’ di sentimento anticristiano. Si tratta tuttavia di gruppi marginali.
D. - Per quanto riguarda invece la Chiesa cattolica, quali sono oggi
le principali sfide che deve affrontare?
R. - La comunità cattolica
deve innanzitutto prendere coraggio e coscienza di essere una presenza minoritaria,
ma pur sempre una presenza in Turchia. Questo perché le situazioni storiche passate
hanno portato i cristiani a vivere in una sorta di anonimato. È giunto il momento
di esprimersi apertamente, senza paure, senza reticenze. Anche perché la Chiesa cattolica
in Turchia venga giuridicamente riconosciuta. Abbiamo bisogno di un seminario, perché
il Paese necessita di un clero “Doc” e non di persone che vengano dall’estero come
il sottoscritto e come tanti altri. Vogliamo che il Cristianesimo in Turchia parli
turco, cioè che sia veramente inculturato, altrimenti rimarremo sempre un corpo estraneo.
L’auspicio è anche quello di avere una maggiore visibilità attraverso i mezzi di informazione.
La nostra comunità, infatti, è talmente ridotta che non abbiamo accesso ai media che
peraltro riteniamo fondamentali anche per dare un’immagine esatta di quello che è
la Chiesa e il Cristianesimo.
D. - L’Anno Paolino ha favorito l'ecumenismo
in Turchia?
R. - Certamente lo ha favorito e lo
notiamo dal fatto di condividere gli stessi interessi per l’Apostolo e di esprimerli
anche come è stato fatto in più occasioni, sia con simposi o celebrazioni comunitarie
promosse da noi e dalla Chiesa ortodossa. Mi limito a ricordare l’ultima del 25 gennaio
a Tarso, dove c’è stata una presenza significativa di cristiani delle diverse confessioni.
Sono momenti significativi che comunque ci aiutano ad avere coscienza di non essere
soli. Quello che abbiamo scritto nella Lettera Pastorale è eloquente: prima di essere
cattolici, ortodossi, protestanti, siamo cristiani. Questo è l’elemento di base che
deve unirci. Altre iniziative intraprese quest’anno riguardano la stampa. Abbiamo
fatto conoscere di più la persona, le Lettere di Paolo anche attraverso progetti promossi
dalle singole parrocchie. Piccole cose, ma in Turchia tutto sommato non siamo in grado
di fare di più, tenuto conto dei fondi limitati.