Lunedì prossimo, la Beatificazione a Nagasaki di 188 martiri giapponesi. Intervista
con il cardinale Saraiva Martins
“Questi 188 martiri non sono dei militanti politici, non hanno lottato contro un regime
che impediva la libertà religiosa: sono stati uomini e donne di una fede profonda
e autentica”, che “donano a tutti noi un’esperienza su cui riflettere”, Con queste
parole i vescovi giapponesi hanno salutato l’imminente Beatificazione di Peter Kibe
e 187 compagni, martiri in Giappone tra il 1603 e il 1639, che lunedì prossimo verranno
elevati agli onori degli altari in una solenne cerimonia a Nagasaki. A rappresentare
il Papa, e a pronunciare la formula del rito, sarà il prefetto emerito della Congregazione
per le Cause dei Santi, il cardinale José Saraiva Martins, al quale Roberto
Piermarini ha chiesto quale messaggio lasciano alla Chiesa universale, e a quella
giapponese in particolare, i 188 martiri giapponesi:
R. - Innanzitutto,
lasciano un messaggio molto ricco, molto attuale e molto importante. Il primo messaggio
è rivolto ai giovani, ai laici. E’ interessante sottolineare il fatto che i nuovi
Beati saranno 188 e, di questi, almeno 183 sono laici. Soltanto cinque sono sacerdoti
missionari: quattro gesuiti ed un agostiniano. Quindi, il loro è un messaggio molto
forte per i laici di oggi. Noi sappiamo che Giovanni Paolo II ha insistito molte volte
sul ruolo e sull’importanza che hanno i laici nella Chiesa. E ha detto molto bene,
seguendo il Concilio, che la santità non è soltanto per i preti e per le suore, ma
anche per i laici, per tutta la Chiesa. C’è una vocazione verso la santità. Quindi,
un capitolo del messaggio dei martiri giapponesi che saranno beatificati il prossimo
24 novembre è proprio questo: ricordare ai laici che anche loro sono chiamati alla
santità e a testimoniare in maniera forte ed efficace l’unica cosa importante, la
più importante nella Chiesa, che è la santità, come diceva Giovanni Paolo II. Questi
martiri che saranno beatificati sono dei testimoni massimi della fede che tutti noi
professiamo. Il martirio è la testimonianza più forte: preferire di dare la vita piuttosto
che rinunciare alla propria fede. Questo presuppone che questa fede, per cui hanno
dato la vita, sia stata vissuta in profondità, nella quotidianità della loro vita.
Quindi, è un capitolo molto importante del messaggio dei martiri giapponesi che saranno
beatificati. C’è poi un altro capitolo, rivolto alle famiglie cristiane. E’ interessante
ricordare che, tra questi martiri giapponesi, ci sono intere famiglie. Il loro, dunque,
è un messaggio per la famiglia di oggi in particolare, non soltanto per i laici in
generale. Noi sappiamo quale sia lo stato della famiglia oggi: è in crisi. I valori
della famiglia, purtroppo, stanno sbiadendo sempre di più, molte volte fino a scomparire.
Ebbene, questa famiglia martire ci ricorda che come famiglia, come gruppo, è tenuta
a testimoniare la fede, a viverla in profondità, genitori e figli. Una testimonianza
non individuale, personale, ma collegiale, comunitaria di tutta la famiglia, che è
poi la Chiesa domestica.
D. - Perché, eminenza,
furono perseguitati e martirizzati?
R. - Non certamente
per motivi politici o economici, perché sappiamo bene che in nel periodo in cui furono
martirizzati c’erano anche portoghesi, spagnoli, in poche parole occidentali che andavano
in Estremo Oriente anche per attività economiche, e quindi c’era una chiusura verso
l’Occidente, verso la cultura occidentale, che coinvolgeva anche la religione cattolica.
Qualcuno poteva essere tentato di interpretare questo martirio dei cristiani di allora
in chiave politica: i giapponesi del tempo erano contro gli occidentali, ed essendo
la religione cattolica portata in Giappone dagli occidentali ciò spiegherebbe questo
atteggiamento contrario ai cristiani, fino al martirio. Ma è un’interpretazione che
non corrisponde a verità. Questi martiri hanno dato la loro vita per la fede: questa
è la ragione vera e questo appare molto chiaro dagli studi storici che sono stati
fatti. Non si è trattato di qualcosa di ordine profano - civile, economico, amministrativo
- ma di ordine puramente religioso: si trattava della fede. E' molto interessante
notare, a conferma di quello che sto dicendo, che esisteva un odio contro i cristiani
perché si temeva che si diffondessero in quelle terre dell'Estremo Oriente. E c’era
una vera persecuzione, forte, violentissima contro i cristiani, e la prova di questo
sta nel fatto che a chi denunciava i cristiani veniva promessa una ricompensa in soldi.
Per esempio, la denuncia di un sacerdote era ricompensata con dieci monete, quella
di un religioso non sacerdote con cinque monete, la denuncia di un laico cristiano
era ricompensata con tre monete. Quindi, appare molto chiaro il motivo per cui sono
morti. Poi, un altro fatto da rilevare è che gli assassini di questi cristiani reclamizzavano
l'evento della loro morte - che avveniva per decapitazione o per crocifissione o per
combustione, quando erano ancora vivi - e facevano molta pubblicità perché potessero
assistere alla morte dei cristiani un gran numero di persone. Perché? Per dire loro:
“Guardate, che se voi vi fate cristiani, o se voi non rinunciate alla vostra fede
cristiana, farete la stessa fine”. Naturalmente, questo ha avuto un effetto che forse
loro non si aspettavano. Dando pubblicità a quegli eventi, alla morte dei cristiani,
sono rimasti molti testimoni, molte testimonianze, preziosissime da un punto di vista
storico. E a questo non hanno pensato certamente coloro che hanno promosso questa
pubblicità. Comunque una cosa è sicura, sicurissima storicamente, è che l’unico motivo
per il quale sono stati uccisi quei 188 cristiani è stata la fede, alla quale non
hanno voluto rinunciare nemmeno a costo della loro vita.
D.
- Eminenza, lei vede una correlazione tra la persecuzione dei cristiani del 1600,
periodo nel quale vissero i martiri giapponesi, e quelle attuali in molti Paesi dell’Asia,
come l’India, l’Indonesia, l’Iraq?
R. - Sì, certamente
c’è un rapporto ecclesiale molto profondo in questo senso: la Chiesa cattolica, la
Chiesa di Cristo, è la Chiesa dei martiri, lo è stata sempre. La Chiesa, nei suoi
oltre duemila anni di storia, non ha deposto mai la tunica rossa del martirio. La
Chiesa che Cristo ha pensato, ha voluto, ha istituito, per continuare la sua missione
dopo la sua ascensione in cielo, non è soltanto la Chiesa dell’"andate ed insegnate",
la Chiesa missionaria. Non è soltanto la Chiesa eucaristica, fondata sull’eucaristia,
sul “Fate questo in memoria di me”. E' anche la Chiesa dei martiri. “Se hanno perseguitato
me - ha detto Gesù - perseguiteranno anche voi”. Ecco, perché tutte le persecuzioni
lungo la storia della Chiesa - sia quelle primitive, sia quelle susseguitesi attraverso
i secoli fino ad oggi - sono sempre un riflesso della Parola di Cristo e sono ancora
una prova che veramente la Chiesa è la Chiesa dei martiri, ed è il sangue dei martiri
che dà fecondità alla Chiesa, che ne feconda il ministero. Non dobbiamo illuderci:
la Chiesa dell’"andate e annunciate", la Chiesa missionaria,è
anche la Chiesa del sangue: è la suprema testimonianza che ha dato Cristo per primo
e che deve riflettersi poi in tutti i membri del corpo di Cristo. Allora, ci vuole
nei cristiani una disponibilità permanente a dare la propria vita per difendere, se
necessario, la propria fede. E’ quello che è capitato sempre ed è quello che sta capitando
nei casi cui lei si riferiva.