Emergenza umanitaria a Gaza dopo la ripresa delle violenze
Non si fermano gli scontri al confine tra Israele e la Striscia Gaza dopo la violazione,
venerdì scorso, della tregua siglata a giugno tra Hamas e lo Stato ebraico. Stamani,
quattro miliziani palestinesi sono rimasti uccisi ad est di Gaza City in un raid aereo
israeliano. Secondo le forze di Tel Aviv, il gruppo si accingeva a sparare razzi contro
Israele. Intanto, con la ripresa delle violenze e la chiusura dei valichi, è cessata
la distribuzione degli aiuti alimentari nella Striscia e a nulla sono valsi per ora
gli appelli dell’Onu e dell’Unione Europea per ristabilire gli approvvigionamenti
al territorio palestinese. A questo proposito Gabriella Ceraso ha raccolto
la testimonianza di un'insegnante cristiana che vive a Gaza e che per ragioni
di sicurezza preferisce mantenere l’anonimato:
R. - La
situazione è molto difficile, è tutto chiuso per noi. Ad esempio, mia figlia ha finito
la scuola quest’anno ed io non ho potuto mandarla fuori all’università. Questa è la
cosa più difficile: che non possiamo uscire, è come una prigione: una prigione così
grande che non si può partire, non si può andare da nessuna parte.
D.
- Per quanto riguarda medicinali, i bisogni che avete?
R.
- Non sempre si trova tutto. Per esempio, se abbiamo una malattia seria, gli ospedali
qui non sono troppo buoni. Allora non è facile uscire, avere il permesso.
D.
- Quale testimonianza, anche di vita, si può dare in un clima di questo genere, di
paura, di limitazione?
R. - Io, ad esempio, insegnavo
ad una scuola frequentata solo da musulmani ed era un’esperienza molto bella, perché
si vede che c’è Gesù in loro. Io guardavo ognuno come se ci fosse Gesù in lui anche
se qualche volta non mi capivano perché sono cristiana - loro non hanno un’idea dei
cristiani come sono. Con la vita, tante di loro hanno capito che una persona cristiana
vive l'amore.
D. - Che rapporto c’è invece con la
pace? Se ne parla, che idea c’è?
R. - Tutti dicono
che vogliono la pace, ma non so se hanno capito bene cosa voglia dire “pace”.
D.
- Educare i giovani alla pace è un’esperienza che tu hai fatto?
R.
- Quando ero con i figli - erano più piccoli - hanno cominciato dalle nove di sera
fino al mattino, sempre con i bombardamenti e i bambini avevano tanta paura. Loro
hanno cominciato a dire qualche parola: “Perché fate così”, ed io ho detto: “Perché
non dite che Gesù ha detto che dobbiamo amare i nemici. Questa è un’occasione, no?”
Allora mi hanno detto: “Come possiamo amare loro?” Ed io ho detto: “Possiamo non dire
niente ma possiamo pregare per loro, possiamo chiedere a Gesù che metta il suo amore
in loro, che li faccia pensare che non stanno facendo una cosa bella.” Allora abbiamo
pregato insieme per loro e dopo, anche se continuavano i bombardamenti, non avevano
più paura.
D. - C’è la speranza, è cambiato qualcosa
negli ultimi anni? Senti che c’è un progetto?
R.
- Non sento che ci sia qualcosa di serio perché non vediamo niente: vediamo che le
cose vanno male, vanno peggiorando.
D. - Andare via
è ipotizzabile?
R. - Non sarà facile, ma per il futuro
dei figli sarebbe stato meglio uscire fuori per farli studiare, per trovare un lavoro
buono. Ma qui, adesso, con questa situazione, non c’è speranza.