Preservare la dignità del malato, favorendo la solidarietà tra il medico e il paziente:
il commento del prof. Vincenzo Saraceni, all’indomani del discorso del Papa ai chirurghi
Umanizzare la medicina, favorendo un’“alleanza terapeutica” tra medico e paziente:
è il cuore del discorso che Benedetto XVI ha rivolto ieri ai partecipanti al Congresso
dei chirurghi italiani. Nel suo intervento, il Papa ha ribadito che la dignità del
malato va sempre preservata e che la tecnologia non può sostituire l’amore nella cura
del sofferente. Su questo passaggio del discorso di Benedetto XVI si sofferma il prof.
Vincenzo Saraceni, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani, intervistato
da Alessandro Gisotti:
R. - Mi
sembra che al centro del suo intervento ci sia il rispetto del malato. Il rispetto
del malato significa il rispetto della sua dignità, sempre. Qualche volta i malati
hanno la sensazione soggettiva di trovarsi in una condizione di non dignità e questo
dipende dallo sguardo col quale, qualche volta, i medici si accostano al malato. Talvolta,
i malati hanno la sensazione che i medici tolgano lo sguardo dalla loro condizione.
Quindi, anzitutto serve il rispetto della dignità e, secondo, il rispetto della loro
storia. Anzi, dice il Pontefice, questa storia, se viene accolta, può anche aiutare
il medico a fare meglio la diagnosi. A volte, noi medici andiamo di corsa, non abbiamo
questa pazienza di ascoltare. Terzo punto, la storia familiare. Anche questo contesto
è un altro richiamo fondamentale per il rispetto del paziente. D. - Benedetto
XVI ha detto che si deve mirare ad una vera alleanza terapeutica con il paziente,
specie in un periodo nel quale si insiste sull’autonomia individuale del paziente.
Ecco, un richiamo particolarmente attuale...
R. -
Deve essere consentita questa solidarietà tra medico e paziente: che entrambi riconoscano
la propria fragilità e il proprio destino. Questa relazione di solidarietà può diventare
addirittura una relazione di alleanza, se entrambi hanno a cuore il vero bene del
malato. Però, da un lato, c’è il malato che ha diritto, dice il Papa, alla sua autodeterminazione,
ma questa autodeterminazione evidentemente è finalizzata al bene della persona. Dall’altro,
c’è il medico, che deve responsabilmente, e sempre per il bene del paziente, proporre.
Con questo termine, il Papa ha voluto mostrare ancora una volta grande rispetto: il
medico propone una soluzione terapeutica che il paziente deve accogliere, condividere,
perché entrambi hanno questo comune denominatore, che vogliono guardare al bene della
persona.
D. - Il paziente, ha avvertito il Santo
Padre, rischia di essere in qualche misura “cosificato”: un termine difficile, ma
che rende drammaticamente l’idea del pericolo di disumanizzazione del malato, del
rapporto con il malato stesso. Come evitare questa deriva?
R.
- Non è facile evitare questa deriva, perché purtroppo c’è una cultura dominante in
campo medico, che è una cultura di neutralità. Il rischio è che la malattia venga
considerata una sorta di meccanismo che si è inceppato e la terapia il ripristino
automatico di questo meccanismo inceppato. Questa è una modalità di approccio che
rende il paziente una "cosa". Quindi, è una riduzione del paziente alla sua malattia.
Peggio ancora, ai suoi meccanismi biologici che in qualche modo sono alterati. Quando
invece noi parliamo di relazione, parliamo di accoglienza della sua storia, parliamo
di alleanza: evidentemente non c’è la malattia, c’è la persona umana.