Una Chiesa bruciata in India, un cristiano ucciso a Mosul. Dopo l’appello del Papa
per la fine delle violenze anticristiane, la testimonianza di un vescovo dell’Orissa
e del visitatore apostolico dei caldei in Europa
I cristiani indiani dell’Orissa, dell’Iraq e quelli congolesi del Nord Kivu sono sempre
presenti nelle preghiere di Benedetto XVI, che, ieri all’Angelus, ha nuovamente espresso
la sua vicinanza spirituale ai fedeli di queste terre segnate dalla violenza. Un pensiero
speciale è andato alla comunità indiana che ieri ha vissuto un momento di gioia con
la canonizzazione di Sant’Alfonsa dell’Immacolata Concezione, prima Santa dell’India.
Tuttavia, nonostante le parole del Santo Padre, le violenze, iniziate a fine agosto,
non si arrestano: in queste ore – riferisce l’agenzia “AsiaNews” - è stata bruciata
una chiesa vicino a Bangalore. Il bilancio degli attacchi dei fondamentalisti indù
si fa dunque sempre più drammatico: 61 morti, 18 mila feriti e 181 le chiese danneggiate
o distrutte a cui si sommano 4500 case di cristiani incendiate. Sulla terribile situazione
dei cristiani dell’Orissa, all’indomani dell’appello del Papa, ecco la testimonianza
mons. Lucas Kerketta, vescovo di Sambalpur, raggiunto telefonicamente nello
Stato indiano da Alessandro Gisotti:
R. – The
people are still in fear... La gente ha ancora paura. Alcuni minuti fa è
venuto uno dei preti della parrocchia. C’è un tempio indù in quell’area dove c’è stata
una grande celebrazione e dove è stato lanciato un messaggio affinché i villaggi,
le chiese intorno a quel luogo, vengano attaccati. La gente è letteralmente spaventata
e speriamo che non lo facciano.
D. – Ieri il Papa
ha ripetuto di nuovo un appello per la pace e il dialogo a favore dei cristiani in
Orissa. Quanto è importante il dialogo per lei e per la sua comunità?
R.
– It is the only way... E’ l’unico modo per stare con questa gente, perché
la mia comunità è tutta sparpagliata e dobbiamo vivere con loro. Quindi questo dialogo
è importante. Abbiamo problemi con questa gente al momento. Dopo l’assassinio di un
leader indù sono diventati violenti, non ascoltano, e alcuni di loro, in alcune aree,
non accettano il dialogo. Ma con altri di loro, e con altre denominazioni non indù,
abbiamo un dialogo e stiamo cercando di fare incontri di pace, di incontrarci. Questo
prosegue anche adesso.
D. – Quindi, anche se la situazione
è molto tesa, pensa che il dialogo sia ancora possibile e la Chiesa sta lavorando
a questo scopo…
R. – Yes, it is possible and we have
to try… Sì, è possibile e dobbiamo provare, perché non c’è un’altra via
possibile. E cerchiamo di farlo anche con lo sviluppo sociale e le attività sociali.
Noi stiamo coinvolgendo l’intero gruppo, anche gli indù. Quindi, in quell’area, più
o meno, stiamo avendo un dialogo.
Anche per la situazione dei cristiani
iracheni si è levato ieri il preoccupato appello del Papa, fatto proprio anche dall'associazione
"Pax Christi Italia", che in una nota sottolinea "il grido di dolore del popolo iracheno
e la disperata situazione dei cristiani" in Iraq. Intanto, continuano le violenze
che costringono migliaia di persone a fuggire. Né si vede un allentamento della tensione,
nonostante il governo iracheno abbia costituito un comitato d’emergenza nella città
settentrionale di Mosul per garantire la protezione della comunità cristiana locale,
proprio in concomitanza, ieri, con l’uccisione di un altro cristiano. Ma si può ormai
parlare di vera e propria persecuzione? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a
padre Philip Najim, visitatore apostolico per i fedeli caldei in Europa: R.
– Sì, il problema di questi attentati, oggi, ai cristiani dell’Iraq, sono delle forze
oscure che vogliono spaccare questa unità nazionale. Noi abbiamo bisogno, adesso,
dell’unità, abbiamo bisogno di essere insieme, poter raggiungere, attraverso un cammino,
la meta di pace nell’Iraq.
D. – Perché i cristiani,
in Iraq, sono così scomodi?
R. – Ma veramente non
è una questione soltanto dei cristiani dell’Iraq, perché hanno tentato di creare un
conflitto attraverso anche le altre confessioni religiose che esistono in Iraq. E
il motivo di tutto questo è che vogliono soltanto creare il caos, vogliono rallentare
il processo di pace, vogliono spaccare l’unità del Paese; non c’erano, prima, queste
divisioni, anche storicamente. Tutti siamo iracheni, tutti abbiamo vissuto in Iraq,
tutti abbiamo costruito l’Iraq insieme, a prescindere dalla fede; ognuno è libero
di avere la sua religione, ma alla fine rimane questa nazionalità irachena che ha
contribuito a costruire lo Stato. Oggi ci sono queste forze che non vogliono questa
stabilità, non vogliono la pace, non vogliono un Iraq prosperoso, e qui il popolo
diventa la vittima e paga queste conseguenze; qui la politica è contro l’uomo, il
popolo iracheno ha sofferto tantissimo e la comunità cristiana ha sofferto tantissimo.
Qui la comunità internazionale deve intervenire e deve difendere la dignità dell’uomo,
aiutare questo popolo iracheno affinché riacquisti la sua identità, riacquisti la
sua dignità, perché ha diritto alla vita, alle sue risorse per poter vivere una vita
migliore.
D. – Sono tantissimi i cristiani ormai
in fuga dalle violenze; in quale condizione stanno vivendo questi profughi?
R.
– Veramente in una condizione molto difficile: migliaia e migliaia di cristiani adesso
alloggiano presso i monasteri, presso i conventi, presso le chiese nel nord dell’Iraq,
e i nostri vescovi, i nostri sacerdoti, i nostri monaci hanno spalancato le porte
per accogliere questi cristiani e per soddisfare proprio le loro necessità: oggi veramente
vivono una situazione drammatica e una situazione amara.
D.
– Qual è la ricchezza che invece i cristiani possono apportare, per il futuro dell’Iraq?
R.
– I cristiani, con i loro confratelli musulmani, come ha detto e ha ripetuto varie
volte il Santo Padre, hanno vissuto 14 secoli insieme, perciò continueranno ancora
a dare il loro contributo - attraverso la loro capacità e la loro presenza - per
un Iraq migliore, per un futuro migliore, per un Iraq di pace e per un Iraq prosperoso.