Mons. Migliore all'ONU: nell’opera di peacebuilding le religioni possono dar
vita ad una cultura di prevenzione e mediazione. Disattesi gli accordi internazionali
sul disarmo
“L’edificazione della pace: un ruolo per la religione”, è il tema dell’incontro che
si è svolto ieri a New York a margine della 63.ma Sessione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite, promosso dalla missione di Osservazione permanente della Santa
Sede. A prendervi parte, i rappresentanti di diverse religioni che hanno discusso
della possibilità di impegni comuni per la promozione della pace. Ma ascoltiamo in
proposito al microfono di Tiziana Campisi l’osservatore permanente della Santa
Sede presso le Nazioni Unite, l’arcivescovo Celestino Migliore, impegnato ieri
anche con un intervento sul disarmo internazionale:
R. - Le religioni
non sono chiamate a fare mediazione o risoluzione, composizione di conflitti, nel
senso tecnico indicato dai documenti internazionali, ma sono efficaci nell’opera di
pacificazione, nella misura in cui sono lasciate libere di essere se stesse, cioè
di dare il loro apporto specifico. Ogni religione ha un suo patrimonio teologico,
spirituale, soprattutto vissuto, che crea cultura: la cultura della prevenzione dei
conflitti, la cultura della risoluzione e mediazione dei conflitti, la cultura che
porta poi a costruire la pace dopo i conflitti. E’ importante non chiedere alle religioni
altre cose che non competono ad esse.
D. - Si parla
di peacebuilding. Questo è il termine relativo all’edificazione della pace,
alle operazioni e alle attività che la favoriscono. Quali iniziative sta portando
avanti attualmente la Chiesa a tal proposito?
R.
- In particolare, si è parlato delle Filippine, della Repubblica Democratica del Congo,
si è parlato del Rwanda, del Burundi, dell’Africa del Sud, del Salvador e dei Paesi
dell’America Centrale, anche dell’America Latina. Per esempio, anche negli stessi
Stati Uniti, la Conferenza episcopale sta portando avanti dei programmi di aiuto e
di formazione delle commissioni nazionali o diocesane di altri Paesi oltre alla costruzione
della pace.
D. - Lei è intervenuto alla 63.ma Sessione
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’argomento: “Il disarmo”. Oggi pare
che vi sia un impegno un po’ in calo i questa direzione...
R.
- Come in tutti gli ambiti, anche in questo ci sono luci ed ombre. Per esempio, una
bella luce è che in questo anno è stata adottata la Convenzione sulle armi e munizioni
a grappolo. Il punto debole del piano internazionale in questo momento è invece quello
dell’erosione del multilateralismo. La Commissione per il disarmo non ha più avuto
un’agenda precisa ormai da dieci anni. Il Trattato contro la proliferazione nucleare
è disatteso da molti. Il Trattato sul commercio delle armi stenta ad andare avanti.
C’è una specie di divario tra la politica della sicurezza e le politiche militari.
La politica della sicurezza porta la comunità internazionale ad adottare delle norme
sempre più ristrette circa la produzione, il possesso e il trasferimento di armi nucleari.
Le politiche nazionali vedono molti Paesi che invece sono in corsa per o rinnovare
i loro arsenali o farsi un proprio arsenale nucleare. Così pure c’è un divario tra
la politica della sicurezza e lo sviluppo, perché le spese per gli armamenti sono
sempre in rialzo, mentre gli investimenti sullo sviluppo retrocedono sempre di più.