Il presidente americano George W. Bush ha detto che, dopo il voto positivo del Senato
ieri, anche la Camera deve dare luce verde al piano di salvataggio di Wall Street.
''Ne ha bisogno l'economia, il piano è essenziale alla sicurezza dei mercati'', ha
detto Bush, secondo il quale, con gli emendamenti al piano approvati, repubblicani
e democratici non dovrebbero più avere riserve a votare per il sì. Alla Camera, dove
si rivota venerdì, avevano bocciato il piano 228 deputati contro 205 favorevoli. Ma
come valutare a questo punto la crisi economica partita dagli Stati Uniti? Nell’intervista
di Fausta Speranza, l’economista Mario Deaglio, docente all’Università
di Torino, la paragona ad una sorta di virus:
R. – Se noi
paragoniamo questa infezione ad una infezione causata da un virus, possiamo dire che
finora abbiamo dato degli antibiotici: abbiamo, cioè, iniettato dei soldi quando mancavano.
Ma come succede, gli antibiotici circoscrivono, limitano i danni, ma non curano la
malattia principale. Quello che il governo americano sembra voler fare è, invece,
di incidere sulla sfiducia, eliminare quindi la sfiducia, perché i “titoli spazzatura”
verrebbero comprati – loro dicono per un periodo temporaneo – da un ente nuovo governativo
e quindi la spazzatura viene messa in frigorifero e poi quando sarà il momento, passata
l’emergenza, viene gradualmente venduta e sperando di non rimetterci troppo. La cifra
è grande in sé, è enorme, ma rappresenta probabilmente non più del 20 per cento dei
“titoli spazzatura” che ci sono in giro. L’operazione si gioca, quindi, sulla fiducia
che una mossa del genere potrebbe ingenerare nei mercati. D.
– Prof. Deaglio, nella storia delle politiche economiche degli USA questa mossa come
verrà registrata? R. – Da una parte, ha una certa ampiezza di
visione, proprio perché per la prima volta invece di correre dietro alle singole situazioni
di emergenza si affronta il problema nel suo complesso. Dall’altra parte, il modo
in cui è stata presentata, il modo in cui si pensa di andare avanti sa un poco di
improvvisazione e di una certa goffaggine. D. – In ogni caso
è davvero la morte del liberismo? R. – Il liberismo così come
era inteso in America sicuramente sì. Un pensiero economico americano, dal 1980 in
poi, ha gradualmente teorizzato che i mercati devono essere lasciati soli: quindi
si autocorreggono, si danno le proprie regole e i vizi privati diventano pubbliche
virtù. Questa – se posso condensare in poche parole – è sostanzialmente l’essenza
della filosofia che sta dietro a tutta la creazione di questo impero di carta, di
questi titoli che si reggono l’uno sull’altro e che hanno, peraltro, consentito –
per esempio – lo sviluppo di Internet e tante altre cose importanti. Quando il castello
di carta, però, viene giù…viene giù. Non si può fare diversamente. A questo punto
deve, quindi, intervenire un ombrello pubblico. Questa è sicuramente la sconfitta
del mercato inteso come supremo ordinatore della vita di una società. D.
– Dopo il via libera in Senato al piano di salvataggio statunitense – ricordiamo,
comunque, che ci sarà il passaggio alla Camera venerdì: la reazione da parte delle
Borse asiatiche è stata di scetticismo, mentre l’Europa ha dato segnali di maggiore
positività. Perché? R. – Anzitutto questo piano sembra essere
stato cambiato dalla sua versione originaria. Vedremo ora, quando emergerà dal Congresso
nel suo complesso, quali cambiamenti siano stati inseriti. L’attuazione del piano
è ancora lontana e meno incisiva di quello che si pensava all’inizio. Ecco il motivo
per cui nel resto del mondo non è che ci sia un grandissimo entusiasmo e non si considera
che questo sia il toccasana. Ma rimane pur sempre una medicina interessante. L’Europa
è un pochino più ottimista dell’Asia, ma queste sfumature in un momento in cui si
sa ancora molto poco sono del tutto normali.