Anno Paolino nel deserto siriano: la testimonianza del padre gesuita Paolo Dall'Oglio
Padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, guida una comunità nel deserto siriano. E’ il monastero
di Mar Musa el Habashi, 80 km a sud di Damasco. Collegato alle antiche vie del pellegrinaggio
verso Gerusalemme, il monastero venne fondato da una comunità di monaci bizantini
nel VI secolo. La comunità di Mar Musa prega e lavora per testimoniare, in terra islamica,
la possibilità di una vita quotidiana comune tra cristianesimo e Islam. Luca Collodi
ha chiesto a padre Paolo Dall’Oglio quanto è stato importante per la fede di
San Paolo, del quale si celebrano quest’anno i 2mila anni dalla nascita, l’esperienza
del deserto:
R. – Non
era un uomo del deserto: Paolo era un uomo delle città. Ha incontrato Gesù sulla via
di Damasco e poi, ci viene detto, è andato a stare con gli arabi, quindi forse ha
avuto la sua esperienza di deserto, dove ha rimeditato tutta la sua conoscenza biblica
alla luce dell’incontro con il Risorto e poi si è ri-immesso sulle strade. In questo
senso è stato discepolo, perché Gesù è stato nel deserto con Giovanni Battista e dal
deserto è partito nella sua missione tra la gente. D. – Qual
è l’importanza dell’Anno Paolino per un Paese come la Siria, a maggioranza musulmana? R.
– San Paolo era prima uno che viveva una relazione di esclusione, di negatività nei
confronti dei non ebrei e di attitudine negativa nei confronti della Chiesa nascente
all’interno del popolo ebraico. Diventato Paolo, con l’incontro con Gesù, è diventato
un uomo innamorato delle genti. A me pare che nella Siria di oggi, la Chiesa che è
plurale, che è una Chiesa di una ricchezza ecumenica straordinaria, può – nella sua
pluralità – essere una Chiesa di armonie e anche una Chiesa innamorata dei non cristiani
per mostrare questo Cristo che ama ciascuno e tutti. Quindi, in questo senso è proprio
San Paolo del farsi tutto a tutti, questa grande chiamata a noi tutti, di saperci
aprire con amore al pluralismo degli uomini: al pluralismo culturale e anche religioso. D.
– Il cristianesimo, secondo lei, è destinato a diventare una minoranza? R.
– No. Il cristianesimo non si rassegna ad essere minoranza, perché vuole che il Cristo
crocifisso attiri tutti, che Dio sia tutto in tutti: in questo senso non si rassegna
ad essere minoranza. Però, capisce sempre meglio che il modo di Gesù di attirare tutti
a sé è quello di essere mite ed umile di cuore. E quindi, dobbiamo ritornare discepoli. D.
– In un Paese come la Siria, tollerante verso le religioni – il cristianesimo è una
minoranza – come si può coniugare l’identità cristiana, l’identità cattolica con il
dialogo tra le religioni? R. – Dal Concilio Vaticano II in poi,
l’identità cattolica implica un impegno di dialogo con le religioni. Non è un problema
di “coniugare”, è un problema di esercitare il nostro cattolicesimo anche secondo
il modulo del dialogo interreligioso. D. – La Siria può essere
un esempio? R. – La Siria è un esempio che non deve diventare
un’eccezione, quindi bisogna fare attenzione nella compagine internazionale a non
entrare in logiche di conflitto che possono rendere questo secolo veramente drammatico
e tragico.