Va sempre riconosciuta la dignità dell’essere umano, anche se malato: il prof. Pessina,
del Centro di Bioetica della Cattolica, commenta l'ipotesi di legge sul “suicidio
assistito” del governo spagnolo
Il governo spagnolo si appresta a varare una legge che autorizza il “suicidio assistito”
entro il 2012. E’ quanto ha annunciato il ministro della Salute, Bernat Soria, in
un’intervista al quotidiano “El Pais”. Il ministro del governo Zapatero ha dichiarato:
“La battaglia contro la morte non si può vincere, ma quella contro il dolore sì”.
Per una riflessione su questa proposta, Alessandro Gisotti ha intervistato
il prof. Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università
Cattolica di Milano:
R. - In realtà,
la battaglia che viene oggi fatta è una battaglia di natura ideologica. E’ l’idea,
in qualche modo, di non voler affrontare il tempo della malattia, segnato dal dolore.
Dal punto di vista sociale, credo che uno Stato non possa, come dire, abdicare ad
una idea fondamentale: riconoscere cioè che il valore e la dignità di una persona
c’è anche quando c’è l’esperienza della malattia. Introdurre il suicidio assistito
e l’eutanasia significa avallare l’idea che ci siano delle vite che non sono degne
di essere vissute. D. - Vale la pena di ribadire quale sia
la posizione della dottrina cattolica su suicidio assistito ed accanimento terapeutico
… R. - E’ molto chiara e consolidata nel tempo. La Chiesa ha
sempre ribadito una cosa fondamentale: bisogna fare interventi che siano sempre proporzionati
alla situazione clinica del paziente e di evitare, quindi, qualsiasi onere eccessivo
alla vita della persona. La vita della persona viene custodita e la morte è un fatto,
non è un valore. Allo stesso tempo, non si può neanche fare tutto ciò che è tecnicamente
possibile, ma solo tutto ciò che è adeguato e proporzionato alla situazione della
persona. D. - In molti Paesi sviluppati economicamente, sembra
quasi si voglia allontanare il dolore ed espellere la morte dalla società. C’è, secondo
lei, un problema culturale a monte di queste proposte legislative? R.
- Il punto fondamentale nell’esperienza della malattia è la questione della solitudine.
Da questo punto di vista, quindi, una cultura che sembra coltivare l’idea che sia
meglio morire che vivere è una cultura che è segnata profondamente da questo problema:
il problema cioè di non avere più delle relazioni significative. La disperazione emerge
quando nei rapporti interpersonali manca una relazione capace di dare senso ai tempi
della malattia e ai tempi della sofferenza. Io credo che una società civile, e quindi
anche la stessa vita politica, debba in qualche modo farsi garante di una concezione
solidale fra le persone. D. - Da parte di chi è favorevole
al suicidio assistito si sostiene che il corpo appartiene al malato e che quindi può
farne ciò che vuole, anche se non è in pericolo di vita. Dove può condurre questo
individualismo esasperato? R. - Questo tema che “il corpo mi
appartiene” - e che dunque, in qualche modo, la mia stessa vita mi appartiene - è
anche un tema equivoco. Nel senso che, nei confronti della mia vita, io non solo ho
la possibilità di disporne di fatto, ma ho anche un dovere di tutela, di tutela della
vita stessa. E mi sembra si dimentichi anche un’altra tesi importante della Chiesa
cattolica, che non parla del corpo come di un qualcosa che sia la proprietà di altri,
dello Stato o di Dio. E questo perché nella Chiesa cattolica viene messo bene in luce
come il nostro essere creature ci mette di fronte al fatto che Dio non è padrone della
nostra vita, ma è padre della nostra vita ed è quindi capace di una relazione di custodia.
Io credo che, in qualche modo, anche dal punto di vista laico, una società contemporanea
dovrebbe ribadire questo tema fondamentale: il tema di una relazione significativa
fra le persone, che scopra come la vita sia un compito ed una responsabilità. Siamo
in una società individualista e sembra che l’opposizione nei confronti della Chiesa
nasca forse proprio perché la Chiesa oggi è l’unica realtà che ci rimanda ad una idea
di comunità: all’idea di fatto che la vita è fondamentalmente legata a delle relazioni.