Le violenze anticristiane in India. Il vescovo Felix Machado: "Facciamo sentire la
nostra voce, questo silenzio è inaccettabile"
A una settimana dall’inizio delle violenze anticristane, nello stato indiano dell’Orissa
si fronteggia l’emergenza delle migliaia di sfollati fuggiti dalla persecuzioni dei
fondamentalisti indù. Secondo le ultime stime fornite da AsiaNews, almeno 10 mila
persone chiedono assistenza nei centri di accoglienza e altrettante cercano rifugio
nelle foreste. Intanto, la Chiesa indiana leva sua voce attraverso diverse manifestazioni
di protesta come la chiusura delle scuole cattoliche in tutto il Paese di venerdì
scorso. Per domenica 7 settembre, è stata poi indetta una giornata di preghiera e
digiuno che sta raccogliendo molte adesioni in tutto il mondo cattolico. Sul significato
di queste iniziative ascoltiamo, al microfono di Fabio Colagrande, mons.
Felix Machado vescovo della diocesi indiana di Nashik:
R. - Questa
violenza è senza fondamento e quanto sta accadendo in un Paese grande e democratico
- dove anche la Costituzione garantisce la libertà religiosa, il rispetto, il dialogo
- è inaccettabile per la Chiesa, perchè davvero è un attacco preparato sistematicamente,
senza nessun motivo e senza nessuna prova. E alla Chiesa il governo ha chiesto di
proteggersi. Ma dobbiamo far sentire la nostra voce, il nostro grido, perchè questa
ingiustizia è veramente insopportabile. Se non diciamo niente, essendo noi minoranza
loro andranno avanti. Serve la solidarietà della Chiesa: che i cristiani, ma non solo
loro, anche il popolo di buona volontà, si uniscano ed esprimano questa nostra preoccupazione.
Ecco perchè la Chiesa ha indetto questa giornata di preghiera. D.
- La comunità cristiana ha ricevuto in India, in queste giornate, solidarietà anche
dai non cristiani, dopo queste violenze? R. - Sì. Nella mia
diocesi, tutte le scuole cattoliche sono state chiuse. C’è stata anche una scuola
protestante che in solidarietà ha chiuso. Nella zona dov’è la sede del vescovo, ho
organizzato io stesso la preghiera durata due ore. Non lo abbiamo imposto né forzato
nessuno. In questa mia zona ho avuto più di 500 insegnanti, molti dei quali non cristiani
ma indù, e abbiamo fatto una preghiera. Anche alcuni musulmani e buddisti hanno partecipato
e hanno espresso la loro solidarietà alla Chiesa. D. - Lei,
eccellenza, conosce bene anche attraverso la sua esperienza presso il Pontificio Consiglio
per il Dialogo interreligioso, i presupposti del dialogo tra cattolici e induisti.
Pensa che si possa creare un percorso di riconciliazione per combattere il fondamentalismo? R.
- Sì, c’è buona volontà. C’è un desiderio per la pace e per l’armonia. Solo che il
nostro mondo è diventato troppo politicizzato e tutto questo complica il dialogo.
Ma noi abbiamo il dovere di prendere le iniziative. Dobbiamo, come San Paolo, grande
missionario, andare verso gli altri per costruire i ponti dell’amicizia, come dice
il Santo Padre. D. - Nonostante queste drammatiche violenze
contro i cristiani, l’India resta il Paese culla del dialogo tra le religioni... R.
- Sì, ci sono sforzi e si vede. Purtroppo, oggi le brutte notizie ricevono più attenzione.
Questo è un dispiacere, perchè la maggioranza degli indiani ha buon senso ed è in
sintonia con la tradizione del dialogo interreligioso, dell’armonia interreligiosa.
Sono questi piccoli gruppi a seminare odio e pregiudizio contro gli altri. Credo quindi
che non dobbiamo scoraggiarci noi cristiani, ma in solidarietà con il popolo di buona
volontà, dobbiamo contare sul valore del dialogo interreligioso e promuoverlo sempre. In
India, non sono solo le violenze a colpire i cristiani. Ad essere ostacolato è, in
diversi casi, anche il quotidiano impegno dei missionari verso i più poveri, i più
deboli. Luca Collodi ha raccolto la testimonianza di fratel Luca Perletti,
religioso Camilliano, infermiere in India per otto anni:
R. - Io stesso
sono un po’ il frutto di questa avversione alla Chiesa cattolica, perché sono stato
espulso dall’India dopo avervi lavorato per otto anni. Sono stato espulso dopo aver
contribuito ad aprire quelli che sono i primi centri per malati di AIDS nel Paese,
a livello anche statale. Adesso, questi centri sono riconosciuti come centro di eccellenza
nel Paese. La gente ci apprezza molto. Io credo alla testimonianza di Madre Teresa,
una testimonianza ancora molto viva. Quello che noi facciamo nell’aiutare la popolazione
- i nostri malati erano indù per la maggioranza - viene riconosciuto dalla gente.
E noi, come cristiani, promuoviamo anche lo sviluppo della società. Siamo impegnati
nel promuovere la condizione delle donne e nel superare il sistema delle caste. E
dunque, per certi partiti siamo un ostacolo. D. - Il fondamentalismo
è un pericolo per l’India oggi? R. - Lo è per tutto il mondo.
Lo è per l’India, perché, comunque, questo Paese non ha ancora risolto alcune ferite
antiche, come la divisione nel 1948. La popolazione vive relativamente in pace, ma
ogni tanto si riaccende la violenza. Una violenza qualcuno ha interesse a sostenere
ed alimentare. D. - Lei, personalmente, ha avuto modo di dialogare
con il mondo indù? R. - Sì, l’ho conosciuto attraverso i nostri
malati. Posso portare un esempio. Noi avevamo tra i nostri ricoverati un brahmino,
che appartiene alla casta più alta, la casta sacerdotale. Ricordo che lui un giorno
mi disse: “Io credo in Dio, ma non l’ho mai visto. Però attraverso di voi l’ho visto”.
Io credo che questo è ciò che noi cristiani possiamo dare a quel mondo.