Pubblicato dalla Sala Stampa vaticana il testo integrale del dialogo del Papa con
il clero nel Duomo di Bressanone
Ultimi giorni per Benedetto XVI a Bressanone: domani pomeriggio il Papa riceverà la
Cittadinanza onoraria della città altoatesina. Domenica alle 12.00 guiderà l’Angelus
in Piazza Duomo. Lunedì sera il rientro a Castelgandolfo. Oggi intanto la Sala Stampa
vaticana ha pubblicato il testo integrale del lungo dialogo del Papa con il clero,
svoltosi mercoledì scorso nella Cattedrale di Bressanone. Ecco il testo:
Domanda
di Michael Horrer, seminarista:
D. - Santo Padre, mi chiamo Michael
Horrer e sono seminarista. In occasione della XXIII Giornata mondiale della Gioventù
di Sydney, in Australia, alla quale ho partecipato con altri giovani della nostra
diocesi, Lei ha ribadito continuamente ai 400 mila giovani presenti l’importanza dell’opera
dello Spirito Santo in noi giovani e nella Chiesa. Il tema della Giornata era: “Avrete
forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8).
Ora noi giovani siamo ritornati – rafforzati dallo Spirito Santo e dalle Sue parole
– nelle nostre case, nella nostra diocesi ed alla nostra vita quotidiana. Santo Padre,
come possiamo vivere concretamente qui, nel nostro Paese e nella nostra vita quotidiana,
i doni dello Spirito Santo e testimoniarli agli altri, in modo che anche i nostri
parenti, amici e conoscenti sentano e sperimentino la forza dello Spirito Santo e
noi possiamo esercitare la nostra missione di testimoni di Cristo? Cosa ci può consigliare,
per fare in modo che la nostra diocesi rimanga giovane nonostante l’invecchiamento
del clero e rimanga anche aperta all’opera dello Spirito di Dio che guida la Chiesa?
R.
- Grazie per questa domanda. Sono contento di vedere un seminarista, un candidato
al sacerdozio di questa diocesi, nel cui volto posso in un certo senso ritrovare il
volto giovane della diocesi, e sono contento di sentire che Lei, insieme ad altri,
è stato a Sydney, dove in una grande festa della fede abbiamo sperimentato insieme
proprio la giovinezza della Chiesa. Anche per gli australiani è stata una grande esperienza.
Inizialmente avevano guardato a questa Giornata mondiale della gioventù con grande
scetticismo perché ovviamente avrebbe portato con sé molti impedimenti nella vita
quotidiana, molti fastidi, come ad esempio per il traffico eccetera. Ma alla fine
– l’abbiamo visto anche dai media, i cui pregiudizi si sono sbriciolati pezzo per
pezzo – tutti si sono sentiti coinvolti da questa atmosfera di gioia e di fede; hanno
visto che i giovani vengono e non creano problemi di sicurezza e nemmeno di altro
genere, ma sanno stare insieme con gioia. Hanno visto che anche oggi la fede è una
forza presente, che è una forza capace di dare il giusto orientamento alle persone,
per cui c’è stato un momento in cui abbiamo veramente sentito il soffiodello
Spirito Santo che spazza via i pregiudizi, che fa capire agli uomini che sì, qui troviamo
quello che ci tocca da vicino, questa è la direzione in cui dobbiamo andare; e così
si può vivere, così si apre il futuro. A ragione Lei ha detto
che è stato un momento forte, dal quale abbiamo riportato a casa una fiammella. Nella
vita quotidiana, però, è molto più difficile percepire concretamente l’operare dello
Spirito Santo o addirittura essere personalmente mezzo affinché Egli possa essere
presente, affinché si verifichi quel soffio che spazza via i pregiudizi del tempo,
che nel buio crea la luce e ci fa sentire che la fede non solo ha un futuro, ma è
il futuro. Come possiamo realizzare ciò? Certamente, da soli non ne siamo in grado.
Alla fine, è il Signore che ci aiuta, ma noi dobbiamo essere strumenti disponibili.
Direi semplicemente: nessuno può dare quello che non possiede personalmente, cioè:
non possiamo trasmettere lo Spirito Santo in modo efficace, renderlo percepibile,
se noi stessi non gli siamo vicini. Ecco perché io penso che la cosa più importante
sia che noi stessi rimaniamo, per così dire, nel raggio del soffio dello Spirito Santo,
in contatto con lui. Soltanto se saremo continuamente toccati interiormente dallo
Spirito Santo, se Egli ha la sua presenza in noi, soltanto allora possiamo anche trasmetterlo
ad altri, Egli allora ci dà la fantasia e le idee creative sul come fare; idee che
non si possono programmare ma che nascono nella situazione stessa, perché lì lo Spirito
Santo sta operando. Quindi, primo punto: dobbiamo noi stessi rimanere nel raggio del
soffio dello Spirito Santo. Il Vangelo di Giovanni ci racconta
come, dopo la Risurrezione, il Signore viene dai discepoli, soffia su di loro e dice:
“Ricevete lo Spirito Santo”. Questo è un parallelo alla Genesi, dove Dio soffia sull’impasto
di terra e questo prende vita e diventa uomo. Ora l’uomo, che interiormente è oscurato
e mezzo morto, riceve nuovamente il soffio di Cristo ed è questo soffio di Dio che
gli dà una nuova dimensione di vita, gli dà la vita con lo Spirito Santo. Possiamo
quindi dire: lo Spirito Santo è il soffio di Gesù Cristo e noi, in un certo senso,
dobbiamo chiedere a Cristo di soffiare sempre su di noi affinché in noi questo soffio
diventi vivo e forte e operi nel mondo. Ciò significa dunque che dobbiamo tenerci
vicini a Cristo. Noi lo facciamo meditando la sua Parola. Noi sappiamo che l’autore
principale delle Sacre Scritture è lo Spirito Santo. Quando attraverso di essa noi
parliamo con Dio, quando in essa non cerchiamo soltanto il passato ma veramente il
Signore presente che ci parla, allora è come se noi ci trovassimo – come ho detto
anche in Australia – a passeggiare nel giardino dello Spirito Santo, parliamo con
Lui, Egli parla con noi. Ecco, imparare ad essere di casa in questo ambito, nell’ambito
della Parola di Dio è una cosa molto importante che, in un certo senso, ci introduce
nel soffio di Dio. E poi, naturalmente, questo ascoltare, camminare nell’ambito della
Parola deve trasformarsi in una risposta, una risposta nella preghiera, nel contatto
con Cristo. E, naturalmente, innanzitutto nel Santo Sacramento dell’Eucaristia, nel
quale Egli ci viene incontroed entra in noi, quasi si fonde con noi. Ma poi
anche nel Sacramento della Penitenza, che sempre ci purifica, che lava via le oscurità
che la vita quotidiana ripone in noi. In breve, una vita con
Cristo nello Spirito Santo, nella Parola di Dio e nella comunione della Chiesa, nella
sua comunità viva. Sant’Agostino ha detto: “Se vuoi lo Spirito di Dio, devi essere
nel Corpo di Cristo”. Nel Corpo mistico di Cristo si trova l’ambito del suo Spirito. Tutto
questo dovrebbe determinare lo svolgimento della nostra giornata, in modo che diventi
una giornata strutturata, un giorno in cui Dio ha sempre accesso a noi, in cui continuamente
si verifica il contatto con Cristo, in cui proprio per questo riceviamo continuamente
il soffio dello Spirito Santo. Se faremo questo, se non saremo troppo pigri, indisciplinati
o indolenti, allora ci accadrà qualcosa, allora la giornata prenderà una forma e allora
la nostra stessa vita prenderà una forma in essa e questa luce emanerà da noi senza
che dobbiamo stare a pensarci troppo o che dobbiamo adottare un modo d’agire – per
così dire – “propagandistico”: viene da sé, perché rispecchia il nostro animo.
A
questa aggiungerei poi una seconda dimensione, logicamente collegata con la prima:
se viviamo con Cristo, anche le cose umane ci riusciranno bene. Infatti, la fede non
comporta solo un aspetto soprannaturale, essa ricostruisce l’uomo riportandolo alla
sua umanità, come mostra quel parallelo tra la Genesi e Giovanni 20; essa si basa
proprio sulle virtù naturali: l’onestà, la gioia, la disponibilità ad ascoltare il
prossimo, la capacità di perdonare, la generosità, la bontà, la cordialità tra le
persone. Queste virtù umane sono indicative del fatto che la fede è veramente presente,
che noi veramente siamo con Cristo. E credo che dovremmo fare molta attenzione, anche
per quanto riguarda noi stessi, a questo: far maturare in noi l’autentica umanità,
perché la fede comporta la piena realizzazione dell’essere umano, dell’umanità. Dovremmo
far attenzione a svolgere bene ed in maniera giusta le cose umane anche nella professione,
nel rispetto delprossimo, preoccupandoci del prossimo, che è il modo migliore
per preoccuparci di noi stessi: infatti, “esserci” per il prossimo è il modo migliore
di “esserci” per noi stessi. E da questo nascono poi quelle iniziative che non si
possono programmare: le comunità di preghiera, le comunità che leggono insieme la
Bibbia o anche l’aiuto fattivo alle persone che sono in necessità, che ne hanno bisogno,
che si trovano ai margini della vita, ai malati, agli handicappati e tante altre cose
ancora ... Ecco che ci si aprono gli occhi per vedere le nostre capacità personali,
per prendere le corrispondenti iniziative e saper infondere negli altri il coraggio
di fare altrettanto. E proprio queste cose umane poi ci fortificano, mettendoci in
qualche modo nuovamente in contatto con lo Spiritodi Dio.
Il
capo dei Cavalieri dell’ordine di Malta a Roma mi ha raccontato che a Natale è andato
con alcuni giovani alla stazione per portare un po’ di Natale alle persone abbandonate.
Mentre egli stesso poi stava ritirandosi, ha sentito uno dei giovani dire all’altro:
“Questo è più forte della discoteca. Qui è veramente bello, perché posso fare qualcosa
per gli altri!”. Queste sono le iniziative che lo Spirito Santo suscita in noi. Senza
tante parole esse ci fanno sentire la forza dello Spirito e si viene resi attenti
a Cristo.
Bè, forse ho detto ora poco di concreto, ma penso che la cosa
più importante sia che, innanzitutto, la nostra vita sia orientata verso lo Spirito
Santo, perché viviamo nell’ambito dello Spirito, nel Corpo di Cristo, e che poi da
questo sperimentiamo l’umanizzazione, curiamo le semplici virtù umane ed impariamo
così ad essere buoni nel senso più ampio della parola. In questo modo si acquista
sensibilità per le iniziative di bene che poi naturalmente sviluppano una forza missionaria
e in un certo senso preparano quel momento in cui diventa sensato e comprensibile
parlare di Cristo e della nostra fede.
Domanda di padre Willibald Hopfgartner
OFM:
D. - Santo Padre, mi chiamo Willibald Hopfgartner, sono francescano e
opero nella scuola e in diversi ambiti della guida dell’Ordine. Nel Suo Discorso di
Ratisbona Lei ha sottolineato il legame sostanziale tra lo Spirito divino e la ragione
umana. Dall’altro canto, Lei ha anche sempre sottolineato l’importanza dell’arte e
della bellezza, dell’estetica. Allora, accanto al dialogo concettuale su Dio (in teologia),
non dovrebbe essere sempre di nuovo ribadita l’esperienza estetica della fede nell’ambito
della Chiesa, per l’annuncio e la liturgia?
R. - Grazie. Sì, penso che
le due cose vadano insieme: la ragione, la precisione, l’onestà della riflessione
sulla verità, e la bellezza. Una ragione che in qualche modo volesse spogliarsi della
bellezza, sarebbe dimezzata, sarebbe una ragione accecata. Soltanto le due cose unite
formano l’insieme, e proprio per la fede questa unione è importante. La fede deve
continuamente affrontare le sfide del pensiero di questa epoca, affinché essa non
sembri una sorta di leggenda irrazionale che noi manteniamo in vita, ma sia veramente
una risposta alle grandi domande; affinché non sia solo abitudine ma verità – come
ebbe a dire una volta Tertulliano. San Pietro, nella sua prima Lettera, aveva scritto
quella frase che i teologi del medioevo avevano preso come legittimazione, quasi come
incarico per il loro lavoro teologico: “Siate pronti in ogni momento a rendere conto
del senso della speranza che è in voi” – apologia del logos della speranza, un trasformare
cioè il logos, la ragione della speranza in apologia, in risposta agli uomini.Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse logos, che essa fosse
una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio,
frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata
a tutti.
Ma proprio questo logos creatore non è soltanto un logos tecnico
– su questo aspetto torneremo con un’altra risposta – è ampio, è un logos che è amore
e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, una volta ho
detto che per me, l’arte ed i Santi sono la più grande apologia della nostra fede.
Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili,
ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i Santi, questa
grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì
veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce
dalla luce. E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco,
sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale:
è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale
riusciamo ad annunciare visivamenteDio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui
essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali
– le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso
di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio. E nel cristianesimo
si tratta proprio di questa epifania: che Dio è diventato una velata Epifania - appare
e risplende. Abbiamo appena ascoltato l’organo in tutto il suo splendore e io penso
che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità
della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e
alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via ... Ascoltando
tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si bemolle e le grandi composizioni
spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica,
anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono
cose del genere, c’è la Verità. Senza un’intuizione che scopra il vero centro creativo
del mondo, non può nascere tale bellezza. Per questo penso che dovremmo sempre fare
in modo che le due cose siano insieme, portarle insieme. Quando, in questa nostra
epoca, discutiamo della ragionevolezza della fede, discutiamo proprio del fatto che
la ragione non finisce dove finiscono le scoperte sperimentali, essa non finisce nel
positivismo; la teoria dell’evoluzione vede la verità, ma ne vede soltanto metà: non
vede che dietro c’è lo Spirito della creazione. Noi stiamo lottando per l’allargamento
della ragione e quindi per una ragione che, appunto, sia aperta anche al bello e non
debba lasciarlo da parte come qualcosa di totalmente diverso e irragionevole. L’arte
cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica
o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione
molto ampliata ,nella quale cuore e ragione si incontrano.Questo è il punto.
Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e
ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. E quanto più noi stessi riusciamo
a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa
anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente. Allora,
caro Padre Hopfgartner, grazie per la domanda; cerchiamo di fare in modo che le due
categorie, quella estetica e quella noetica, siano unite e che in questa grande ampiezza
si manifesti l’interezza e la profondità della nostra fede.
Domada
di don Willi Fusaro:
D. - Santo Padre, sono don Willi Fusaro, ho 42 anni e
sono ammalato dall'anno della mia ordinazione sacerdotale. Sono stato ordinato nel
giugno del 1991; poi nel settembre dello stesso anno ho avuto la diagnosi di sclerosi
multipla. Sono cooperatore parrocchiale presso la parrocchia del Corpus Domini di
Bolzano. Mi ha colpito molto la figura di Giovanni Paolo II, soprattutto nell'ultimo
tempo del suo pontificato, quando portava con coraggio e umiltà, davanti al mondo
intero, la sua umana debolezza. Vista la sua vicinanza al suo amato predecessore,
e in base alla sua personale esperienza, quali parole mi può donare e può donare a
tutti noi per aiutare davvero i sacerdoti, anziani, ammalati a vivere bene e fruttuosamente
il loro sacerdozio nel presbiterio e nella comunità cristiana? Grazie!
R.
- Grazie, reverendo. Dunque, anche io direi che per me le due parti del pontificato
di Papa Giovanni Paolo II sono ugualmente importanti. La prima parte nella quale lo
abbiamo visto come gigante della fede: egli con un coraggio incredibile, una forza
straordinaria, una vera gioia della fede, una grande lucidità, ha portato fino ai
confini della terra il messaggio del Vangelo. Ha parlato con tutti, ha aperto nuove
strade con i Movimenti, con il dialogo interreligioso, con gli incontri ecumenici,
con l’approfondimento dell’ascolto della Parola Divina, con tutto …. con il suo amore
per la Sacra Liturgia. Lui realmente – possiamo dire – ha fatto cadere non le mura
di Gerico, ma le mura tra due mondi, proprio con la forza della sua fede e questa
testimonianza rimane indimenticabile, rimane una luce per questo nuovo millennio.
Ma devo dire che per me anche questi ultimi anni del suo Pontificato non
erano di minore importanza, a motivo di questa testimonianza umile della sua passione.
Come ha portato la Croce del Signore davanti a noi e ha realizzato la parola del Signore:
“Seguitemi, portando con me, e seguendo me, la Croce”! Questa umiltà, questa pazienza
con la quale ha accettato quasi la distruzione del suo corpo, la crescente incapacità
di usare la parola, lui che era stato maestro della parola. E così ci ha mostrato
- mi sembra - visibilmente questa verità profonda che il Signore ci ha redento con
la sua Croce, con la Passione come estremo atto del suo amore. Ci ha mostrato che
la sofferenza non è solo un non, un qualcosa di negativo, la mancanza di qualche cosa,
ma è una realtà positiva. Che la sofferenza accettata nell’amore di Cristo, nell’amore
di Dio e degli altri è una forza redentrice, una forza dell’amore e non meno potente
che i grandi atti che aveva fatto nella prima parte del suo Pontificato. Ci ha insegnato
un nuovo amore per i sofferenti e fatto capire che cosa vuol dire “nella Croce e per
la Croce siamo salvati”. Anche nella vita delSignore abbiamo questi due aspetti.
La prima parte dove insegna la gioia del Regno di Dio, porta i suoi doni agli uomini
e poi, nella seconda parte, l’immergersi nella Passione, fino all’ultimo grido dalla
Croce. E proprio così ci ha insegnato chi è Dio, che Dio è amore e che nell’identificarsi
con la nostra sofferenza di esseri umani ci prende nelle sue mani e ci immerge nel
suo amore e solo l’amore è il bagno di redenzione, di purificazione e di rinascita.
Perciò mi sembra che noi tutti – e sempre di nuovo in un mondo che vive
di attivismo, di giovinezza, dell’essere giovane, forte, bello, del riuscire a fare
grandi cose – dobbiamo imparare la verità dell’amore che si fa passione e proprio
così redime l’uomo e lo unisce con Dio amore. Quindi vorrei ringraziare tutti coloro
che accettano la sofferenza, che soffrono con il Signore e vorrei incoraggiare tutti
noi ad avere un cuore aperto per i sofferenti, per gli anziani e capire che proprio
la loro passione è una sorgente di rinnovamento per l’umanità e crea in noi amore
e ci unisce al Signore. Ma alla fine è sempre difficile soffrire. Mi ricordo la sorella
del cardinale Mayer: era molto ammalata, e lui le diceva, quando era impaziente: “Ma,
vedi, tu sei adesso con il Signore”. E lei ha risposto: “Per te è facile dire questo,
perché tu sei sano, ma io sono nella passione”. E’ vero, nella passione vera diventa
sempre difficile unirsi realmente al Signore e rimanere in questa disposizione di
unione con il Signore sofferente. Preghiamo dunque per tutti isofferenti e
facciamo quanto sta in noi per aiutarli, mostriamo la nostra gratitudine per il loro
soffrire e assistiamoli in quanto possiamo, con questo grande rispetto per il valore
della vita umana, proprio della vita sofferente fino alla fine. E’ questo un messaggio
fondamentale del cristianesimo, che viene dalla teologia della Croce: che la sofferenza,
la passione è presenza dell’amore di Cristo, è sfida per noi ad unirci con questa
sua passione. Dobbiamo amare i sofferenti non solo con le parole, ma con tutta la
nostra azione e il nostro impegno. Mi sembra che solo così siamo cristiani realmente.
Ho scritto nella mia Enciclica “Spe salvi” che la capacità di accettare la sofferenza
e i sofferenti è misura dell’umanità che si possiede. Dove manca questa capacità,
l’uomo è ridotto e ridimensionato. Quindi preghiamo il Signore perché ci aiuti nella
nostra sofferenza e ci induca ad essere vicini a tutti i sofferenti in questo mondo.
Domanda del prof. Karl Golser:
D. - Santo Padre!
Mi chiamo Karl Golser, sono professore di teologia morale qui a Bressanone e anche
direttore dell’Istituto per la giustizia, la pace e la tutela della creazione; anche
canonico. Mi piace ricordare il periodo in cui ho potuto lavorare con Lei alla Congregazione
per la Dottrina della Fede. Come Lei sa, la Chiesa cattolica ha profondamente forgiato
la storia e la cultura nel nostro Paese. Oggi però, a volte abbiamo la sensazione
che, come Chiesa, ci siamo un po’ ritirati in sagrestia. Le dichiarazioni del magistero
pontificio in merito alle grandi questioni sociali non trovano il giusto riscontro
a livello di parrocchie e di comunità ecclesiali.
Qui, in Alto Adige, ad esempio,
le autorità e molte associazioni richiamano fortemente l’attenzione sui problemi ambientali
e in particolare sui cambiamenti climatici: gli argomenti principali sono lo scioglimento
dei ghiacciai, le frane in montagna, i problemi del costo dell’energia, il traffico
e l’inquinamento atmosferico. Molte sono le iniziative a favore della tutela dell’ambiente.
Nella
consapevolezza media dei nostri cristiani, però, tutto questo ha ben poco a che vedere
con la fede. Cosa possiamo fare per portare maggiormente nella vita delle comunità
cristiane il senso di responsabilità nei riguardi del creato? Come possiamo arrivare
a vedere sempre più insieme la Creazione e la Redenzione? Come possiamo vivere in
modo esemplare uno stile di vita cristiano, che sia durevole? E come unirlo ad una
qualità di vita, che sia attraente per tutti gli uomini della nostra terra?
R.
- La ringrazio molto, caro professor Golser: sicuramente Lei potrebbe rispondere molto
meglio di me a tali questioni, ma proverò lo stesso a dire qualcosa. Lei ha dunque
toccato il Tema Creazione e Redenzione ed io penso che questo legame inscindibile
debba ricevere nuovo rilievo. Negli ultimi decenni, la dottrina della Creazione era
quasi scomparsa in teologia, era quasi impercettibile. Ora ci accorgiamo dei danni
che ne derivano. Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa
sua totale grandezza – di Creatore e di Redentore – togliamo valore anche alla Redenzione.
Infatti, se Dio non ha nulla da dire nella Creazione, se viene relegato semplicemente
in un ambito della storia, come può realmente comprendere tutta la nostra vita? Come
potrà portare veramente la salvezza per l’uomo nella sua interezza e per il mondo
nella sua totalità? Ecco perché per me, il rinnovamento della dottrina della Creazione
eduna nuova comprensione dell’inscindibilità di Creazione e Redenzione riveste
una grandissima importanza. Dobbiamo riconoscere nuovamente: Lui è il creator Spiritus,
la Ragione che è in principio e dalla quale tutto nasce e di cui la nostra ragione
non è che una scintilla. Ed è Lui, il Creatore stesso, che è pure entrato nella storia
e può entrare nella storia ed operare in essa proprio perché Egli è il Dio dell’insieme
e non solo di una parte. Se riconosceremo questo, ne conseguirà ovviamente che la
Redenzione, l’essere cristiani, semplicemente la fede cristiana significano sempre
e comunque anche responsabilità nei riguardi della Creazione. Venti-trenta anni fa
si accusavano i cristiani – non so se questa accusa sia ancora sostenuta – di essere
i veri responsabili della distruzione della Creazione, perché la parola contenuta
nella Genesi – “Soggiogate la terra” – avrebbe portato a quella arroganza nei riguardi
del creato di cui noi oggi sperimentiamo le conseguenze.Penso che dobbiamo
nuovamente imparare a capire questa accusa in tutta la sua falsità: fino a quando
la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di “soggiogarla” non è mai
stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere
custodi della creazione e di svilupparne i doni; di collaborare noi stessi in modo
attivo all’opera di Dio, all’evoluzione che Egli ha posto nel mondo, così che i doni
della creazione siano valorizzati e non calpestati e distrutti.
Se osserviamo
quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino
a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò
non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera
corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare
la creazione e non a distruggerla. In questo contesto rientra anche il capitolo 8
della Lettera ai Romani, dove si dice che la creazione soffre e geme per la sottomissione
in cui si trova e che attende la rivelazione dei figli di Dio: si sentirà liberata
quando verranno delle creature, degli uomini che sono figli di Dio e che la tratteranno
a partire da Dio. Io credo che sia proprio questo che noi oggi possiamo constatare
come realtà: il creato geme – lo percepiamo, quasi lo sentiamo – e attende persone
umane che lo guardino a partire da Dio. Il consumo brutale della creazione inizia
dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi
siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo
solo per noi stessi. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più
alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste
più alcuna dimensione della vita al di là della morte, dove in questa vita dobbiamo
accaparrarci il tutto e possedere la vita nella massima intensità possibile, dove
dobbiamo possedere tutto ciò che è possibile possedere. Io credo, quindi,
che istanze vere ed efficienti contro lo spreco e la distruzione del creato possono
essere realizzate e sviluppate, comprese e vissute soltanto là, dove la creazione
è considerata a partire da Dio; dove la vita è considerata a partire da Dio e ha dimensioni
maggiori – nella responsabilità davanti a Dio – e un giorno ci sarà donata da Dio
in pienezza e mai tolta: donando la vita, noi la riceviamo.
Così, credo,
dobbiamo tentare con tutti i mezzi che abbiamo di presentare la fede in pubblico,
specialmente là dove riguardo ad essa c’è già sensibilità. E penso che la sensazione
che il mondo forse ci stia scivolando via – perché siamo noi stessi a cacciarlo via
– e il sentirci oppressi dai problemi della creazione, proprio questo ci dia l’occasione
adatta in cui la nostra fede può parlare pubblicamente e può farsi valere come istanza
propositiva. Infatti, non si tratta soltanto di trovare tecniche che prevengano i
danni, anche se è importante trovare energie alternative ed altro. Ma tutto questo
non sarà sufficiente se noi stessi non troveremo un nuovo stile di vita, una disciplina
fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il
creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina
della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro,
perché è responsabilità davanti a Colui che è nostro Giudice e in quanto Giudice è
Redentore, ma appunto veramente anche nostro Giudice.
Penso quindi che
sia necessario mettere in ogni caso insieme le due dimensioni – Creazione e Redenzione,
vita terrena e vita eterna, responsabilità nei riguardi del creato e responsabilità
nei riguardi degli altri e del futuro –, e che sia nostro compito intervenire così
in maniera chiara e decisa nell’opinione pubblica. Per essere ascoltati dobbiamo contemporaneamente
dimostrare con il nostro stesso esempio, con il nostro proprio stile di vita, che
stiamo parlando di un messaggio in cui noi stessi crediamo e secondo il quale è possibile
vivere. E vogliamo chiedere al Signore che aiuti noi tutti a vivere la fede, la responsabilità
della fede in maniera tale che il nostro stile di vita diventi testimonianza e poi
a parlare in maniera tale che le nostre parole portino in modo credibile la fede come
orientamento in questo nostro tempo.
Domanda di don Franz Pixner,
decano a Kastelruth:
D. - Santo Padre, mi chiamo Franz Pixner e sono il parroco
di due grandi parrocchie. Io stesso, insieme a molti confratelli e anche laici, ci
preoccupiamo del carico crescente nella cura pastorale a causa, per esempio, delle
unità pastorali, che si stanno creando: la pesante pressione del lavoro, la mancanza
di riconoscimento, le difficoltà riguardo al Magistero, la solitudine, la diminuzione
del numero dei sacerdoti ma anche delle comunità di fedeli. Molti si domandano che
cosa Dio ci stia chiedendo, in questa situazione, e in quale modo lo Spirito Santo
ci voglia incoraggiare. In questo contesto nascono domande, per esempio in merito
al celibato dei sacerdoti, all’ordinazione di viri probati al sacerdozio, al coinvolgimento
dei carismi, in particolare anche dei carismi delle donne, nella pastorale, all’incarico
a collaboratrici e collaboratori formati in teologia di conferire il battesimo e tenere
omelie. Si pone anche la domanda di come noi sacerdoti, di fronte alle nuove sfide,
possiamo aiutarci a vicenda in una comunità fraterna, e questo nei diversi livelli
di diocesi, decanato, unità pastorale e parrocchia.
La preghiamo, Santo Padre,
di darci un buon consiglio per tutte queste domande. Grazie!
R. - Caro decano,
Lei ha aperto tutto il fascio di domande che occupano e preoccupano i pastori e noi
tutti in questa nostra epoca e certamente Lei sa che io non sono in grado di dare
in questo momento una risposta a tutto. Immagino che Lei avrà modo di ragionare ripetutamente
di tutto questo anche con il suo Vescovo, e noi a nostra volta ne parliamo nei Sinodi
dei Vescovi. Noi tutti, credo, abbiamo bisogno di questo dialogo tra di noi, del dialogo
della fede e della responsabilità, per trovare la retta via in questo tempo sotto
molti aspetti difficile per la fede e faticoso per i sacerdoti. Nessuno ha la ricetta
pronta, stiamo cercando tutti insieme.
Con questa riserva, che cioè
insieme a voi tutti mi trovo in mezzo a questo processo di fatica e di lotta interiore,
cercherò di dire qualche parola, appunto come parte di un dialogo più ampio. Nella
mia risposta vorrei considerare due aspetti fondamentali. Da un lato, l’insostituibilità
del sacerdote, il significato e il modo del ministero sacerdotale oggi; dall’altro
lato – e questo oggi risalta più di prima – la molteplicità dei carismi e il fatto
che tutti insieme sono Chiesa, edificano la Chiesa e per questo dobbiamo impegnarci
nel risvegliare i carismi, dobbiamo curare questo vivo insieme che poi sostiene anche
il sacerdote. Egli sostiene gli altri, gli altri sostengono lui, e soltanto in questo
insieme complesso e variegato la Chiesa può crescere oggi e verso il futuro. Da
una parte, ci sarà sempre bisogno del sacerdote che è completamente dedito al Signore
e perciò completamente dedito all’uomo. Nell’Antico Testamento c’è la chiamata alla
santificazione che più o meno corrisponde a quello che noi intendiamo con la consacrazione,
anche con l’ordinazione sacerdotale: c’è qualche cosa che viene consegnata a Dio e
perciò viene tolta dalla sfera del comune, data a Lui. Ma questo poi significa che
ora è a disposizione di tutti. Poiché è stata tolta e data a Dio, proprio per questo
ora non è isolata ma è stata sollevata nel “per”, nel per tutti. Penso che questo
si possa dire anche del sacerdozio della Chiesa. Significa che, da un lato, siamo
consegnati al Signore, tolti dal comune, ma, dall’altro, siamo consegnati a Lui perché
in questo modo possiamo appartenergli totalmente e totalmente appartenere agli altri.
Penso che dovremmo continuamente cercare di mostrare questo ai giovani – a loro che
sono idealisti, che vogliono fare qualcosa per l’insieme – mostrare che proprio questa
“estrazione dal comune” significa “consegna all’insieme” e che questo è un modo importante,
il modo più importante per servire i fratelli. E di questo poi fa parte anche quel
mettersi a disposizione del Signore veramente nella completezza del proprio essere
e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli uomini. Penso che il celibato sia
un’espressione fondamentale di questa totalità e già per questo un grande richiamo
in questo mondo, perché esso ha senso soltanto se noi crediamo veramente alla vita
eterna e se crediamo che Dio ci impegna e che noi possiamo esserci per Lui. Quindi,
il sacerdozio è insostituibile perché nell’Eucaristia esso, partendo da Dio, sempre
edifica la Chiesa, perché nel Sacramento della Penitenza sempre ci conferisce la purificazione,
perché nel Sacramento il sacerdozio è, appunto, un essere coinvolto nel “per” di
Gesù Cristo. Ma io so bene, quanto oggi sia difficile – quando un sacerdote si trova
a guidare non più soltanto una parrocchia di facile gestione, ma più parrocchie, unità
pastorali; quando deve essere a disposizione per questo consiglio e per quell’altro
e così via – quanto sia difficile vivere una tale vita. Credo che in questa situazione
sia importante avere il coraggio di limitarsi e la chiarezza nel decidere le priorità.
Una priorità fondamentale dell’esistenza sacerdotale è lo stare con il Signore e quindi
l’avere tempo per la preghiera. San Carlo Borromeo diceva sempre: “Non potrai curare
l’anima degli altri se lasci che la tua deperisca. Alla fine, non farai più niente
nemmeno per gli altri. Devi avere tempo anche per il tuo essere don Dio”. Vorrei quindi
sottolineare: per quanti impegnipossano sopraggiungere, è una vera priorità
di trovare ogni giorno, direi, un’ora di tempo per stare in silenzio per il Signore
e con il Signore, come la Chiesa ci propone di fare con il breviario, con le preghiere
del giorno, per così potersi sempre di nuovo arricchire interiormente, per ritornare
– come dicevo rispondendo alla prima domanda – nel raggio del soffio dello Spirito
Santo. E a partire da ciò ordinare poi le priorità: devo imparare a vedere cosa sia
veramente essenziale, dove sia assolutamente richiesta la mia presenza di sacerdote
e non posso delegare nessuno. E allo stesso tempo devo accettare umilmente quando
molte cose che avrei da fare e dove sarebbe richiesta la mia presenza non posso realizzare
perché riconosco i miei limiti. Io credo che una tale umiltà sarà compresa dalla gente.
E
con ciò devo ora collegare l’altro aspetto: saper delegare, chiamare le persone alla
collaborazione. Io ho l’impressione che la gente lo capisce e che anche lo apprezza,
quando un sacerdote sta con Dio, quando bada al suo incarico di essere colui che prega
per gli altri: Noi – dicono – non siamo capaci di pregare tanto, tu devi farlo per
me: in fondo, è il tuo mestiere, per così dire, essere quello che prega per noi. Vogliono
un sacerdote che onestamente si impegni a vivere con il Signore e poi sia a disposizione
degli uomini – i sofferenti, i moribondi, i bambini, i giovani (queste, direi, sono
le priorità) – ma che poi sappia anche distinguere le cose che altri possono fare
meglio di lui, dando così spazio a quei carismi. Penso ai movimenti e a molteplici
altre forme di collaborazione nella parrocchia. Su tutto questo si ragiona insieme
anche nella Diocesi stessa, si creano forme e si promuovono gli interscambi. A ragione
Lei ha detto che in ciò è importante guardare al di là della parrocchia verso la comunità
della diocesi, anzi, verso la comunità della Chiesa universale, che a sua volta, deve
poi rivolgere lo sguardo per vedere cosa succede in parrocchia e quali conseguenze
ne derivano per il singolo sacerdote. Poi Lei ha toccato ancora
un altro punto, molto importante ai miei occhi: i sacerdoti, anche se magari vivono
geograficamente più lontani gli uni dagli altri, sono una vera comunità di fratelli
che devono sostenersi ed aiutarsi a vicenda. Questa comunione tra i sacerdoti è oggi
quanto mai importante. Proprio per non piombare nell’isolamento, nella solitudine
con le sue tristezze, è importante che possiamo incontrarci regolarmente. Sarà compito
della Diocesi stabilire come realizzare al meglio gli incontri tra sacerdoti – oggi
c’è la macchina che facilità gli spostamenti – affinché comunque sperimentiamo sempre
di nuovo lo stare insieme, impariamo l’uno dall’altro, ci correggiamo a vicenda e
vicendevolmente ci aiutiamo, ci rincuoriamo e ci consoliamo, affinché in questa comunione
del presbiterio, insieme al Vescovo, possiamo rendere il nostro servizio alla Chiesa
locale. Appunto: nessun sacerdote è sacerdote da solo, noi siamo presbiterio e solo
in questa comunione con il Vescovo ognuno può rendere il suo servizio. Ora, questa
bella comunione, da tutti riconosciuta su piano teologico deve poi anche tradursi
in pratica, nei modi determinati dalla Chiesa locale. E deve allargarsi, perché anche
nessun Vescovo è Vescovo da solo, ma soltanto Vescovo nel Collegio, nella grande comunione
dei Vescovi. È questa comunione per la quale vogliamo sempre impegnarci. E penso che
questo sia un aspetto particolarmente bello del cattolicesimo: attraverso il Primato,
che non è una monarchia assoluta, ma un servizio di comunione, possiamo avere la certezza
di questa unità,così che in una grande comunità a tante voci, tutti insieme
facciamo risuonare la grande musica della fede in questo mondo. Preghiamo
il Signore che ci consoli sempre quando pensiamo di non farcela più; sosteniamoci
gli uni gli altri, e allora il Signore ci aiuterà a trovare insieme le strade giuste.
Domanda
di don Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia all'Istituto Superiore di
scienze religiose:
D. - Santo Padre, sono Paolo Rizzi, parroco e docente di
teologia all'Istituto Superiore di scienze religiose. Gradiremmo il suo parere pastorale
sulla situazione riguardo ai sacramenti della Prima Comunione e della Confermazione.
Sempre più spesso i bambini, i ragazzi e le ragazze che ricevono questi sacramenti
si preparano con impegno per quanto riguarda gli incontri di catechesi, ma non partecipano
all'Eucaristia domenicale e allora vien fatto di domandarsi: che senso ha tutto questo?
Alle volte verrebbe voglia di dire: “Ma allora state a casa del tutto!”. Invece si
continua come sempre ad accettarli, pensando che in ogni caso è meglio non spegnere
lo stoppino dalla fiamma tremolante. Si pensa cioè che comunque il dono dello Spirito
possa incidere anche al di là di quello che vediamo e che in un’epoca di transizione
come questa sia più prudente non prendere decisioni drastiche. Più in generale, trenta-trentacinque
anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità
di minoranza più o meno in tutta l’Europa. Che si dovesse quindi donare i Sacramenti
solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana. Poi, anche per lo stile del
pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose. Se è possibile fare previsioni
per il futuro, Lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare? Grazie.
R.
- Allora, non posso dare una risposta infallibile in questo momento, posso solo cercare
di rispondere secondo quanto vedo io. Devo dire che io ho percorso una strada simile
alla sua. Quando ero più giovane ero piuttosto severo. Dicevo: i Sacramenti sono i
Sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede,
anche il Sacramento non può essere conferito. E poi ho sempre discusso quando ero
arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa
e una larga. E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto
l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele
di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto - secondo molte autorità
ufficiali – con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle
loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione.
Quindi io direi sostanzialmente
che i Sacramenti sono naturalmente Sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun
elemento di fede, dove la Prima Comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo,
bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un Sacramento della fede. Ma, dall’altra
parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella
Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con
Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi. Naturalmente, certo, deve
essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la Comunione, la Prima Comunione,
non è un fatto “puntuale”, ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino
con Gesù. Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la
domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio. Se vediamo
che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un
Sacramento di desiderio, il “voto” di una partecipazione alla Messa domenicale. In
questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione
ai Sacramenti, per arrivare anche ai genitori e – diciamo – così svegliare anche in
loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini. Dovrebbero aiutare i loro
bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma
della vita, del futuro. Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano
fare la Prima Comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi
in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù.
Direi
quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori
è molto importante. E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori,
rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini – mi sembra
– possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso
soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino
con Gesù, nel contesto di una vita di fede. Quindi convincere un po’, tramite i bambini,
i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione
ai misteri e comincia a far amare questi misteri. Direi che questa è certamente una
risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino
e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché
non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato
il cuore. Nel momento nel quale veniamo convinti, il cuore è toccato, ha sentito un
po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e
in questa direzione. In quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera
catechesi. Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare
la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini
ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo.