Il 25 luglio di 40 anni fa, Paolo VI pubblicava l'"Humanae Vitae", destinata a lasciare
una profonda traccia nelle coscienze. Le voci di Paolo VI e Benedetto XVI spiegano
la novità e l'eredità dell'Enciclica
“La parola chiave” per comprendere l’Enciclica Humanae vitae “è l’amore”. Si esprimeva
con queste parole, poco più di due mesi fa, Benedetto XVI nel celebrare il 40.mo anniversario
del documento pubblicato da Paolo VI, esattamente il 25 luglio del 1968. Un atto magisteriale
che vide la luce in uno dei momenti più delicati della storia recente, specie dei
Paesi occidentali, dove aveva cominciato a imperversare l’onda del Sessantotto. Alessandro
De Carolis rievoca quel periodo e l’eredità lasciata dall’Humanae Vitae alla Chiesa
del XXI secolo:
Nel luglio del 1968, i giovani occidentali si sono da
poco scoperti liberi e soprattutto liberi di farlo vedere. Sovvertire l’ordine costituito,
ad ogni livello, è una delle parole del loro nuovo ordine. In quel clima, spesso esplosivo,
la Chiesa è uno degli obiettivi più bersagliati da molte frange della contestazione.
In quel clima - e su un argomento che per i fautori del ‘68 è una bandiera, la libertà
sessuale - la Chiesa interviene con un documento altrettanto esplosivo, che parla
dell’amore coniugale come frutto dell’Amore di Dio, che usa termini come rispetto
della natura dell’atto matrimoniale, che entra nei suoi gangli intimi asserendo l’inscindibilità
dell’unione sessuale dalla procreazione e distinguendo tra metodi leciti e illeciti
per la regolazione della natalità, che invita i coniugi, anzitutto quelli cristiani,
ad anteporre la responsabilità condivisa agli impulsi personali dell’egoismo, ad essere
aperti alla vita che è un dono di Dio. Il 25 luglio 1968, Paolo
VI firma l’Enciclica Humanae vitae: la Chiesa prende posizione ribadendo e difendendo
la visione cristiana del matrimonio e della sua dignità, proprio nel momento in cui
quella visione la si vorrebbe cancellare in nome della nuova libertà. La firma in
calce a questo atto del Magistero, che ancora oggi è una pietra miliare, “pesa” a
Papa Montini. Ed egli lo confessa all’udienza generale di una settimana dopo, il 31
luglio 1968, parlando di “gravissima responsabilità”, quasi soverchiante rispetto,
osserva Paolo VI, alle “voci fragorose dell’opinione pubblica”, e tuttavia impossibile
da ignorare, soggiunge, per il “formidabile obbligo apostolico di doverCi pronunciare
al riguardo”. Quel 31 luglio 1968, Paolo VI fissa negli occhi le migliaia di fedeli
all’udienza e affida loro, e per loro all’umanità, la speranza, certo, che questo
documento “sarà bene accolto”, ma non solo: “La speranza
infine che saranno gli sposi cristiani a comprendere come la Nostra parola, per severa
ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell’autenticità del loro amore,
chiamato a trasfigurare se stesso nell’imitazione di quello di Cristo per la sua mistica
sposa, la Chiesa; e che essi per primi sapranno dare sviluppo ad ogni pratico movimento
inteso ad assistere la famiglia nelle sue necessità, a farla fiorire nella sua integrità,
e ad infondere nella famiglia moderna la spiritualità sua propria, fonte di perfezione
per i singoli suoi membri e di testimonianza morale nella società”. Quarant’anni
dopo, la Chiesa non ha smesso di muoversi lungo il solco, profondissimo, tracciato
nelle coscienze dai principi dell’Humanae vitae. “Quel documento divenne ben presto
segno di contraddizione”, ha osservato Benedetto XVI il 10 maggio scorso, ricevendo
i partecipanti al Convegno sul 40.mo dell’Humanae vitae promosso dall’Università Lateranense.
Di fatto, ha spiegato il Papa in quella circostanza, nell’Enciclica di Paolo VI “l’amore
coniugale viene descritto all’interno di un processo globale che non si arresta alla
divisione tra anima e corpo né soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario,
ma si fa carico dell’unità della persona”. Tolta questa unità, è stato il monito di
Benedetto XVI, “si perde il valore della persona e si cade nel grave pericolo di considerare
il corpo come un oggetto che si può comperare o vendere”: “In
una cultura sottoposta alla prevalenza dell’avere sull’essere, la vita umana rischia
di perdere il suo valore. Se l’esercizio della sessualità si trasforma in una droga
che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare
i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero
concetto dell’amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa”. Il
miracolo della vita, ha asserito, “è frutto di un amore che sa pensare e scegliere
in piena libertà, senza lasciarsi condizionare oltremisura dall’eventuale sacrificio
richiesto”. Ed ecco perché, ha proseguito, “nessuna tecnica può sostituire l’atto
d’amore che due sposi si scambiano come segno di un mistero più grande che li vede
protagonisti e compartecipi della Creazione”. Anche Benedetto XVI ha concluso con
auspicio il suo discorso, ma pensando soprattutto ai giovani. “Possano apprendere
- ha detto - il vero senso dell’amore e si preparino per questo con un’adeguata educazione
alla sessualità senza lasciarsi distogliere da messaggi effimeri che impediscono di
raggiungere l’essenza della verità in gioco”. Anche perché, ha concluso: “Fornire
false illusioni nell’ambito dell’amore o ingannare sulle genuine responsabilità che
si è chiamati ad assumere con l’esercizio della propria sessualità non fa onore a
una società che si richiama ai principi di libertà e di democrazia. La libertà deve
coniugarsi con la verità e la responsabilità con la forza della dedizione all’altro
anche con il sacrificio”.