In un libro-testimonianza, intitolato “Presenza”, padre Renato Chiera illustra la
sua pedagogia con i meninos de rua di Rio de Janeiro
Una pedagogia incentrata sull’amore per sconfiggere la violenza: è il cuore del libro
“Presenza” di padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor di Rio de
Janeiro. Pagina dopo pagina, padre Renato racconta la sua esperienza ultraventennale
con i meninos de rua, “i ragazzi di strada”. Il libro è stato pubblicato in
Brasile dalla casa editrice “Cidade Nova”. Raggiunto telefonicamente a Rio da Alessandro
Gisotti, padre Renato Chiera si sofferma sul significato della “pedagogia presenza”:
R. - Abbiamo
capito in questi 22 anni, nella Casa do menor, che questi ragazzi hanno molte grida
di sofferenza: non hanno la famiglia, non hanno la casa, non hanno da mangiare. Abbiamo
capito che c’è un grido forte - hanno molte assenze - ma abbiamo capito che c’è un
grido più profondo, il grido per una presenza di qualcuno che mi ami. E questa è la
tragedia: i ragazzi non si sentono amati. Mai i bambini, i ragazzi, sono stati tanto
poco amati come oggi. Per quello sono così violenti e diventano, invece di essere
un dono come dovrebbero essere, una minaccia. I ragazzi nella strada dormono in posizione
fetale. Perché dormono in posizione fetale, e solo in questa posizione riescono a
dormire e non hanno paura? Perché ritornano all’utero, l’utero della presenza della
mamma, della presenza del papà, della presenza di Dio. Gridano per tante presenze,
ma non sono più figli. Questa è la tragedia: non si sentono amati. L’essere umano
è fatto per essere amato.
D. - Questa assenza è soprattutto
assenza di una famiglia...
R. - E’ assenza di qualcuno
che ti faccia sentire figlio. La prima che ci deve far sentire figlio è la nostra
mamma, l’altro è il papà. Ma quando loro non ci sono, bisogna che noi diventiamo questa
presenza di papà e di mamma. E questa è la Casa do menor. La nostra pedagogia è la
pedagogia del rapporto, l’essere umano è un essere di rapporto. Il primo rapporto
è con qualcuno che mi ama. L’altro giorno, dei ragazzi che sono in prigione mi dicevano:
“Noi abbiamo odio, vogliamo ammazzare, bruciare”. E io chiedevo: “Ma perché questo
odio?” E la loro risposta: “Padre, tu non capisci. Noi non siamo stati mai amati”.
I ragazzi devono sentirsi amati e poi devono imparare ad amare: allora lasciano la
droga, allora possono risollevarsi e diventare figli di Dio belli.
D.
- E’ l’amore la vera presenza, dunque?
R. - E’ l’amore,
è l’amore! Ma questo oggi sembra non essere più scientifico. La psicologia non parla
più di questo. La pedagogia non parla più di questo, perché sembra banale dirlo. Sembra
che dire queste cose sia di persone ingenue, di persone che non hanno studiato, che
non sanno le cose. C’è un sociologo qui in Brasile, un grande sociologo, che mi dice:
“Padre, quando vado all’Università non posso parlare di amore, perché mi ridono in
faccia. Allora io faccio dei discorsi difficili e alla fine dico: ‘Volete sapere cosa
voglio dire? Voglio dire che noi dobbiamo ritornare ad amare’”. Ascolto le grida di
ragazzi ed il grido è: io ho bisogno di essere amato. Se io faccio questa esperienza
allora io posso crescere e recuperarmi. Noi abbiamo una diagnosi: i ragazzi hanno
un buco nel cuore, perché non sono figli, non si sentono amati. Io dico sempre che
la maggior tragedia non è essere poveri: la maggior tragedia è non essere amati da
nessuno e non essere figli di nessuno.