2008-07-02 14:34:38

In un libro-testimonianza, intitolato “Presenza”, padre Renato Chiera illustra la sua pedagogia con i meninos de rua di Rio de Janeiro


Una pedagogia incentrata sull’amore per sconfiggere la violenza: è il cuore del libro “Presenza” di padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor di Rio de Janeiro. Pagina dopo pagina, padre Renato racconta la sua esperienza ultraventennale con i meninos de rua, “i ragazzi di strada”. Il libro è stato pubblicato in Brasile dalla casa editrice “Cidade Nova”. Raggiunto telefonicamente a Rio da Alessandro Gisotti, padre Renato Chiera si sofferma sul significato della “pedagogia presenza”:RealAudioMP3

R. - Abbiamo capito in questi 22 anni, nella Casa do menor, che questi ragazzi hanno molte grida di sofferenza: non hanno la famiglia, non hanno la casa, non hanno da mangiare. Abbiamo capito che c’è un grido forte - hanno molte assenze - ma abbiamo capito che c’è un grido più profondo, il grido per una presenza di qualcuno che mi ami. E questa è la tragedia: i ragazzi non si sentono amati. Mai i bambini, i ragazzi, sono stati tanto poco amati come oggi. Per quello sono così violenti e diventano, invece di essere un dono come dovrebbero essere, una minaccia. I ragazzi nella strada dormono in posizione fetale. Perché dormono in posizione fetale, e solo in questa posizione riescono a dormire e non hanno paura? Perché ritornano all’utero, l’utero della presenza della mamma, della presenza del papà, della presenza di Dio. Gridano per tante presenze, ma non sono più figli. Questa è la tragedia: non si sentono amati. L’essere umano è fatto per essere amato.

 
D. - Questa assenza è soprattutto assenza di una famiglia...

 
R. - E’ assenza di qualcuno che ti faccia sentire figlio. La prima che ci deve far sentire figlio è la nostra mamma, l’altro è il papà. Ma quando loro non ci sono, bisogna che noi diventiamo questa presenza di papà e di mamma. E questa è la Casa do menor. La nostra pedagogia è la pedagogia del rapporto, l’essere umano è un essere di rapporto. Il primo rapporto è con qualcuno che mi ama. L’altro giorno, dei ragazzi che sono in prigione mi dicevano: “Noi abbiamo odio, vogliamo ammazzare, bruciare”. E io chiedevo: “Ma perché questo odio?” E la loro risposta: “Padre, tu non capisci. Noi non siamo stati mai amati”. I ragazzi devono sentirsi amati e poi devono imparare ad amare: allora lasciano la droga, allora possono risollevarsi e diventare figli di Dio belli.

 
D. - E’ l’amore la vera presenza, dunque?

 
R. - E’ l’amore, è l’amore! Ma questo oggi sembra non essere più scientifico. La psicologia non parla più di questo. La pedagogia non parla più di questo, perché sembra banale dirlo. Sembra che dire queste cose sia di persone ingenue, di persone che non hanno studiato, che non sanno le cose. C’è un sociologo qui in Brasile, un grande sociologo, che mi dice: “Padre, quando vado all’Università non posso parlare di amore, perché mi ridono in faccia. Allora io faccio dei discorsi difficili e alla fine dico: ‘Volete sapere cosa voglio dire? Voglio dire che noi dobbiamo ritornare ad amare’”. Ascolto le grida di ragazzi ed il grido è: io ho bisogno di essere amato. Se io faccio questa esperienza allora io posso crescere e recuperarmi. Noi abbiamo una diagnosi: i ragazzi hanno un buco nel cuore, perché non sono figli, non si sentono amati. Io dico sempre che la maggior tragedia non è essere poveri: la maggior tragedia è non essere amati da nessuno e non essere figli di nessuno.







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