Alla vigilia della sua udienza con Benedetto XVI, intervista congiunta alla Radio
Vaticana e all'Osservatore Romano del presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi
Domani mattina, alle 11, Benedetto XVI riceverà in udienza in Vaticano il presidente
del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Alla vigilia dell’incontro, il capo dell’esecutivo
ha concesso un’intervista alla Radio Vaticana ed all’Osservatore Romano, la prima
realizzata congiuntamente dai due organi di informazione della Santa Sede a un presidente
del Consiglio italiano. Ascoltiamola al microfono di Luca Collodi (Radio Vaticana)
e di Marco Bellizi (Osservatore Romano):
D.
(Collodi) - Presidente, sono molti i temi sul tappeto. Lasciamo sullo sfondo i temi
del dibattito politico che troviamo trattati sui giornali e sui quali siamo tutti
ampiamente informati. Focalizziamo, invece, il nostro colloquio su alcune grandi urgenze
proposte dalla riflessione della Chiesa. Il primo è il rapporto tra Chiesa e Stato.
Presidente Berlusconi, su quali temi è possibile dialogare e su quali, invece, è possibile
trovare degli accordi? R. - Direi su tutti i temi, senza che
ci siano limitazioni alcune. Quindi è possibile ogni dialogo su ogni argomento. La
nostra Costituzione, la Costituzione italiana, è molto chiara a questo riguardo. Non
ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e di principi da parte
di alcuno, e la Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere
le proprie valutazioni e lo Stato — lo Stato laico — poi esprimerà un suo giudizio
e potrà servirsi e seguire queste valutazioni nella sua azione politica. Anche lo
Stato, da parte sua, ha le sue forme di espressione della volontà che, in un regime
democratico, avviene attraverso gli organi rappresentativi, i quali hanno un potere
legiferante. Non c'è nessun dubbio che non ci siano limiti a questo potere, se non
quelli espressi nella Costituzione. E questo è il fondamento che legittima, appunto,
la laicità dello Stato; questo non esclude però che tutte le forze che operano nella
società abbiano il diritto di esprimersi in funzione delle proprie convinzioni, che
sono politiche ma che sono anche religiose o culturali o di impostazione economica
e sociale. Io ritengo che sarebbe una perdita significativa di libertà, per lo Stato,
escludere o soffocare la manifestazione di queste convinzioni, direi di qualsiasi
convinzione. È tipico proprio di ogni totalitarismo di sopprimerle, ed è un dato storico
che i regimi totalitari incominciano proprio con il soffocare la libertà di espressione
da parte delle istituzioni religiose. Io sono convinto che proprio per la sua millenaria
esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce
sociali più deboli, la Chiesa rappresenti una ricchezza per lo Stato. Lo Stato, volendo
essere e volendo restare laico, deve fuggire dal pericolo di diventare ideologico,
di diventare settario e alla fine addirittura totalitario. Perciò, il dialogo che
precede il rapporto tra Stato e Chiesa come organismi giuridici, è un dialogo assolutamente
positivo, che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la
pluralità della società. D. (Bellizi) - Presidente, la Chiesa
insiste molto sul concetto di bene comune. In Italia, ma anche in Europa, ci sono
segnali di inquietudine sociale, talvolta di ribellione, anche, alle decisioni istituzionali
che arrivano fino anche all'intolleranza: pensiamo, ovviamente, al tema dei rifiuti
in Italia e anche all'accoglienza degli immigrati. Secondo lei, le istituzioni nazionali
ed europee, dove hanno sbagliato nell'azione politica, e come si può ricostruire il
consenso sociale per il bene comune? R. - Intanto, credo che
sia necessario fare una premessa. In Italia, i fenomeni di cui ha parlato hanno assunto
connotati molto minori di quelli che si evidenziano in altri Paesi. Si connotano soprattutto
come avvenimenti singoli, episodici e non certo di massa: penso al raffronto con
quanto è accaduto nelle banlieues parigine, con certe tensioni che si sono create
anche nelle città tedesche o anche in città britanniche. Detto questo, anche da noi
esistono questi segnali che non vanno sottovalutati. E io direi che, soprattutto,
non vanno sottovalutati i problemi che sono a monte di questi disagi, cioè le difficoltà
economiche, i problemi occupazionali — in particolare per i giovani — le difficoltà
di integrare il flusso massiccio di ospiti provenienti da altre nazioni con altre
culture, con altre religioni, con i nostri cittadini. Sono questi tutti problemi che
sono alla base, in Italia e in Europa, di quello che lei ha parlato disegnandolo come
un «ribellismo» giovanile e, più in generale, di un nuovo egoismo, di un rinchiudersi
in se stessi di fronte alle minacce esterne, vere o presunte che siano. Quindi, la
politica del nostro Governo mira innanzitutto a tagliare alle radici queste motivazioni
rilanciando l'economia, per creare un benessere più diffuso anche verso i nuovi cittadini,
e costruendo una politica della sicurezza e dell'accoglienza che sappia coniugare
la garanzia dei diritti con un rigoroso rispetto dei doveri. Credo, certo, che questo
non basterà a sanare tutto, perché il disagio sociale è grande ed è una malattia che
bisogna curare con un massiccio rilancio proprio dei valori morali e religiosi. Ma
comunque, queste saranno le fondamenta necessarie per costruire una convivenza civile
che metta ai margini le frange di ribellione collettiva e limiti nei singoli l'istinto
di chiusura e di egoismo. Quanto poi su che cosa i governi o addirittura l'Unione
europea abbiano sbagliato a questo riguardo, io non so darle ora una risposta documentata.
L'Unione europea, secondo me, deve cambiare, perché oggi i cittadini di tutta Europa
la sentono non come qualcosa che aiuta, ma come qualcosa che costringe i singoli Stati
a tutta una serie di situazioni, di limitazioni che non vanno nella direzione del
bene dei cittadini. Io credo che noi dobbiamo fare una profonda revisione del modo
di agire dell'Europa. Ne ho parlato in questi giorni proprio con alcuni colleghi,
con Sarkozy, con Rodríguez Zapatero, ne avevo parlato con Tony Blair e con altri,
e sono tutti convinti che siamo di fronte alla necessità di una riflessione su ciò
che l'Europa non ha fatto, su ciò che l'Europa ha fatto sbagliando, su ciò che l'Europa
dovrà fare. D. (Collodi) - Di recente il Papa ha espresso ai
vescovi italiani la sua gioia per il rinnovato clima politico che si respira in Italia.
La riflessione che vorrei fare con lei è questa: che rapporti ci sono con l'opposizione,
con l'opposizione parlamentare e — ci permetta una franchezza — vi parlate, al telefono,
anche con Veltroni, con una certa regolarità? R. - C'è una certa
regolarità di contatti con Veltroni e anche con altri esponenti dell'opposizione che,
da parte nostra, è sempre stato un atteggiamento convinto. Siamo assolutamente aperti
al confronto con gli altri, e li rispettiamo tutti, a partire da quelli che sono i
meno fortunati. Questo, perciò, nella vita politica vale assolutamente nei confronti
di tutti. Le dirò che poi, tra l'altro, abbiamo anche una maggiore facilità adesso,
perché ali estreme della sinistra e della destra non sono presenti in Parlamento,
quindi l'opposizione che troviamo in Parlamento dovrebbe essere — io spero che lo
sia — una opposizione che pensa soprattutto al bene comune. Abbiamo cinque anni di
lavoro di questo Governo e l'opposizione non penso che voglia tornare a essere quella
che è stata in passato, durante il mio primo Governo, quella — cioè — che aspettava
che noi prendessimo una decisione per dire che era sbagliata. Io credo che invece
la situazione dell'Italia, i tanti momenti negativi che noi abbiamo ereditato, e che
viviamo, siano tali da necessitare l'impegno di tutti, se vogliamo veramente riuscire
a far rialzare l'Italia. In questi giorni, mi sono incontrato con dei leader europei
e tutti si lamentavano di quello che stanno soffrendo tutti i Paesi d'Europa: l'alto
prezzo del petrolio, delle altre materie prime, il fatto della competizione che ci
viene imposta con prodotti che vengono dall'Oriente, dove il costo del lavoro è una
frazione del costo che abbiamo noi, il fatto del prezzo del petrolio, l'ipervalutazione
dell'euro, che rende difficilissime le nostre esportazioni ... A queste cose noi aggiungiamo
altre cose che sono mali nostri e che purtroppo gli altri non hanno: l'eccessivo costo
dello Stato, della pubblica amministrazione, che è circa il 50% di più di quello che
costano gli altri Stati agli altri cittadini europei; il debito pubblico che qui è
il più elevato, che ci fa spendere decine di miliardi in interessi passivi ogni anno;
l'evasione eccessiva, che riguarda quasi il 20 per cento del nostro prodotto interno;
l'energia, che paghiamo più di tutti gli altri Stati perché dobbiamo comprarla tutta
all'estero; la carenza di infrastrutture, per non parlare poi della situazione tragica
di Napoli, della Campania, che ci espone a un disastro per quanto riguarda anche le
nostre esportazioni, del made in Italy, dell'alta tecnologia, dei nostri cibi pregiati,
verso l'estero. Io credo che siamo di fronte a una situazione che tutti conoscono,
e questa consapevolezza che sono sicuro sia in tutti, non possa che comportare un
diverso atteggiamento anche nella lotta politica: che diventi meno lotta e diventi
invece più considerazione dell'interesse comune. D. (Bellizi)
- Presidente, l'inquietudine sociale di cui parlavamo prima coinvolge indubbiamente
anche la famiglia, sul piano economico. Le associazioni familiari chiedono da tempo
sgravi familiari. Crede che questa sia una strada praticabile? R.
- Guardi, noi lo abbiamo già praticata in due direzioni. La prima è quella di avere
abolito l'imposta comunale sugli immobili sulla prima casa: e questo è un primo aiuto
dato alle famiglie. Secondo, quello di avere abolito, praticamente ridotto moltissimo,
quasi completamente, la tassazione di quel lavoro in più — gli straordinari — oppure
di quegli stipendi e salari in più legati a premi di produttività. Con questo, credo,
innovando e rivoluzionando il rapporto tra imprese e i loro collaboratori: si potrà
da qui in avanti tenere fermo l'ammontare dello stipendio su cui grava una tassazione
che, grosso modo, è intorno al 45-46 per cento, e lasciando ferma questa prima parte,
fare incrementi di stipendio nella direzione di premi di produttività che saranno
tassati soltanto per il 10 per cento. Questo credo che sarà un altro grande aiuto.
Poi, di aiuti, ne abbiamo in programma tanti. Il primo, più importante, soprattutto
per le famiglie numerose, sarebbe quello del quoziente familiare che già è una realtà
— per esempio — in Francia: cioè, quando un capofamiglia singolo deve mantenere moglie
e più figli, non ci sembra logico che, guadagnando la stessa somma, paghi le stesse
imposte di un single. In Francia, per esempio — per fare un esempio concreto — chi
guadagna 35.000 euro all'anno e ha a carico proprio la moglie e tre figli, praticamente
non paga l'imposta personale mentre, invece, naturalmente, in Italia questa imposta
arriva — mi sembra — a 5.600 euro. Ecco: questa è una cosa che noi abbiamo in mente
e che sarà possibile se ci sarà uno sviluppo positivo dei conti pubblici nei nostri
bilanci. Siamo impegnati a far sì che si risparmino molti soldi là dove le spese sono
inutili, a evitare tutti gli sprechi, a limare i privilegi, a chiudere delle società
che non portano nulla, a operare all'interno della pubblica amministrazione affinché
tutti lavorino il giusto e chi non lavora possa essere anche allontanato. Insomma,
è un lavoro non da poco; non è un lavoro immediato, breve. È un lavoro di medio periodo,
però è il lavoro che noi ci stiamo accingendo a fare e nell'ambito della pubblica
amministrazione, ha incominciato molto bene il nostro Gianni Letta. D.
(Collodi) - Presidente, affrontiamo il tema dell'emergenza educativa. Di recente,
in Italia, il cardinale Bagnasco ha richiamato l'attenzione su alcuni aspetti problematici
dei media, soprattutto nella prospettiva dello sviluppo del digitale terrestre e anche
della tv satellitare. Cosa ne pensa lei? E crede che sia possibile armonizzare le
esigenze commerciali con le responsabilità che hanno oggi la radio, la televisione,
in particolare la televisione nella formazione dell'individuo? Pensiamo, per esempio,
alla Campania, dove c'è un'emergenza rifiuti: quanto sarebbe interessante educare
i giovani, per esempio, all'educazione ecologica? R. - Non è
necessario e interessante, è addirittura indispensabile. Tant'è vero che nel piano
che sto mettendo a punto per risolvere questo problema dei rifiuti in Campania e a
Napoli, una delle cose più importanti è la raccolta differenziata che verrà insegnata
soprattutto nelle scuole, affinché gli stessi ragazzi possano, a casa loro, convincere
padre e madre ad adeguarsi a quella che è una necessità affinché Napoli possa riportarsi
a quel livello di civiltà che dovrebbe essere indispensabile per una città e che restituisca,
tra l'altro, a Napoli lo splendore di città dell'arte quale essa è, in effetti. Perciò,
è molto importante che la scuola educhi gli alunni al senso civico, al rispetto degli
altri, anche attraverso questi comportamenti che riguardano fatti come la raccolta
differenziata; ma è anche importante che i media si possano cimentare nella formazione
dei giovani, ma direi anche di tutti i cittadini di qualsiasi età. Vede, qui c'è una
carenza della nostra radio e della nostra televisione nazionale, che è pagata attraverso
il canone e quindi con i soldi di tutti e che invece è diventata una televisione commerciale
come le televisioni private, pur usufruendo — come ho appena detto — del canone da
parte dei cittadini, di una tassa che i cittadini sono costretti a pagare. Vede, le
funzioni della televisione privata, commerciale e della televisione pubblica dovrebbero
essere assolutamente diverse. La televisione privata dovrebbe avere tra le sue funzioni
quella di divertire, come seconda funzione quella di informare e soltanto successivamente,
quella di formare. La televisione pubblica e la radio pubblica dovrebbero invece esattamente
fare il contrario: dovrebbero avere come prima funzione quella di formare, poi quella
di informare e infine, magari, anche quella di divertire. Pensate a quello che invece
è la nostra televisione pubblica oggi: si vede che è esattamente come una televisione
commerciale. Credo che dovremo introdurre un cambiamento se non globale, almeno limitato,
destinando anche programmi di formazione, ma non nelle ore impossibili, oltre la mezzanotte,
alla mattina prestissimo, eccetera: anche in ore centrali della giornata. E credo
che questo, a Napoli, sia assolutamente indispensabile. D. -
(Bellizi) Passiamo a un tema internazionale: il vertice della Fao sull'emergenza alimentare
sta terminando. Sono — siamo — tutti d'accordo nel combattere la fame nel mondo ma
poi, quando si tratta di operare concretamente impegnando soldi ed energie, gli Stati
un po' si defilano. Qual è la sua posizione e quella dell'Italia? R.
- Io sono stato per qualche ora presidente dell'Assemblea dei 183 Paesi che sono venuti
a Roma e ho fatto un intervento in apertura, molto breve, perché volevo inviare un
messaggio molto conciso e preciso. Cioè: siamo arrivati al tempo dei fatti e non delle
parole, perché la fame non può attendere, perché circa un miliardo di esseri umani
certamente non comprende i giochi della grande politica, le logiche del mercato, le
sottigliezze delle organizzazioni internazionali, ma hanno semplicemente fame e muoiono
di fame. Perciò, il mio invito ai partecipanti del Congresso è stato questo: non dilungatevi
sulle analisi storiche, sulle analisi accademiche! Trovate soluzioni concrete su cui
impegnarvi, e decidete anche i tempi della loro realizzazione. Quindi, la lotta alla
fame si divide oggi in due momenti: anzitutto l'emergenza, dovuta al fatto che alcuni
Paesi che prima erano Paesi di auto-consumo, hanno incominciato, allontanandosi dalla
povertà, a soddisfare i loro bisogni anche acquistando i beni alimentari all'estero,
in testa a tutti la Cina e l'India, e la speculazione si è subito infilata in questo
varco. Ora, per questo bisogna avere subito disponibilità finanziarie, bisogna attingere
alle riserve disponibili per alleviare le situazioni più drammatiche, più disperate,
e bisogna che i Paesi più ricchi mettano a disposizione maggiori risorse per fare
fronte a questa situazione. E a questo proposito io ho detto: ma, non dobbiamo assistere
senza fare nulla alla impennata dei prezzi! Se c'è qualcuno che deve pagare i prezzi
in più, c'è anche qualcuno che incassa prezzi in più. E quindi, bisognerebbe chiedere
agli Stati, dove ci sono i produttori che hanno queste utilità, di incassare questi
utili e che il sovrapprezzo speculativo dei produttori venga destinato in parte ad
aiuti immediati. La seconda fase è chiedere contributi da parte delle Nazioni Unite
ai Paesi produttori di petrolio che incassano ogni giorno degli utili straordinari.
Infine, e noi abbiamo tra l'altro dato anche il buon esempio, perché abbiamo portato
da 60 milioni a 190 milioni il nostro contributo per il 2008, bisognerebbe che l'Europa
— e di questo ho parlato con Rodríguez Zapatero e Sarkozy che si sono dichiarati d'accordo
— non calcolasse nei deficit, quando noi presentiamo i bilanci, le somme che i singoli
Stati potrebbero destinare all'aiuto alimentare. E se questo accadesse — io ne parlerò
nel prossimo Consiglio europeo — noi e tutti gli altri Paesi potremmo aumentare immediatamente
i nostri aiuti. Ma poi, c'è il futuro, e il futuro si risolve soltanto con una maggiore
formazione, con una più ampia messa a disposizione delle varie tecnologie, con il
ricorso all'Ogm in tutti i singoli Paesi, dove si deve arrivare a una possibilità
di sopperire autonomamente alle proprie esigenze alimentari. Cioè: il futuro non è
che nell'auto-produzione di ciascun Paese. Per fare questo, c'è un grande ostacolo
ed è che molti di questi Paesi sono Paesi ancora non democratici. E soltanto la democrazia
può consentire la libertà dei singoli, solo con la libertà i singoli possono mettere
a frutto i loro talenti in ogni settore, quindi anche come imprenditori nell'agricoltura.
E questo è il grande problema su cui dovrebbero ragionare e unirsi tutte le democrazie
liberali del mondo per sviluppare tutte le azioni possibili affinché i Paesi che sono
quelli più poveri, in cui esistono dittature e governi autocratici possano passare
da questa situazione a una situazione di democrazia. Soltanto con la democrazia mondiale,
di tutti i Paesi, potremmo avere in futuro una pace mondiale che dia veramente, a
tutti i cittadini del mondo, la possibilità di guardare al futuro senza angoscia.