La Turchia rilancia il dialogo tra Siria e Israele
Ha suscitato nuove speranze per la pace in Medio Oriente il dialogo tra Israele e
Siria avviato con la mediazione della Turchia dopo otto anni di stasi. Al centro dei
negoziati la spinosa questione delle alture del Golan conquistate da Israele nel 1967.
Non è tuttavia la prima volta che Siria ed Israele si confrontano sulla questione;
già nel 2000 i negoziati erano arrivati a un passo da una conclusione postiva, fallendo
però per le rivendicazioni di Damasco sulle acque del Lago di Tiberiade. Ma quale
significato assume oggi il ruolo della Turchia nella gestione della crisi? Stefano
Leszczynski lo ha chiesto a Maria Grazia Enardu, docente di relazioni internazionali
all’Università di Firenze.
R. –
La Turchia è un Paese amico di Israele da sempre, perchè è un Paese musulmano, ma
non è un Paese arabo. Ha sempre avuto buoni rapporti con Israele a partire dal ’48.
Quindi, questo non sorprende, come non sorprende che abbia anche una certa influenza
verso la Siria, perchè è un suo vicino, e quindi hanno tutta una serie di interessi
in comune più o meno definiti. Inoltre, la Turchia, ricordiamolo, è un Paese membro
della Nato e vuole entrare nell’Unione Europea, quindi vuole acquisire una sua dimensione
diplomatica forte e questo è un ottimo terreno su cui farlo. Da questo punto di vista
il ruolo della Turchia va visto in ogni caso in chiave positiva.
D.
– Negoziati sulle alture del Golan già c’erano stati. Nel 2000 sembrava si potesse
arrivare ad una conclusione positiva. Poi sono falliti. Per quale motivo?
R.
– I problemi sono diversi. Innanzitutto, un negoziato serio deve partire dall’idea
che alla fine bisogna cedere il Golan ai siriani. Cedere il Golan significa sgombrare
gli israeliani che vivono lì, significa cedere i drusi del Golan, che non sono così
contenti di passare sotto la Siria, significa cedere le risorse del Golan – l’acqua,
ma anche l’industria del turismo – e questo è per molti israeliani impensabile. Il
problema del governo Olmert è che se questo tentativo andasse avanti la sua maggioranza
parlamentare e anche il suo governo si squaglierebbe in tempi brevi.
D.
– Ha ancora senso oggi con l’evoluzione tecnologica che c’è stata, anche nel campo
militare, parlare di importanza strategico-militare per il Golan?
R.
– Uno dei problemi veri di una discussione, di un trattato sul Golan è che la Siria
non vuole soltanto il Golan, ma vuole un ritiro alla linea del ’67 che, in pratica,
la porterebbe sulle sponde del lago di Tiberiade. Diventerebbe un Paese rivierasco.
D. – Proprio in questo momento in cui il fronte
sciita si sta rafforzando intorno ad Israele, la Siria decide di dare dei segnali
di apertura. Come mai questa posizione controcorrente?
R.
– La Siria è un Paese laico e povero che tutto sommato vuole avere una stabilità internazionale,
che le permetta un rilancio economico, un ruolo maggiore che non sia soltanto un ruolo
in termini negativi. Entrare nel circuito occidentale pur mantenendo da parte del
presidente Assad il controllo, questo è un obiettivo, per loro, prioritario.