Festival di Cannes, una settimana prima del verdetto finale. Le impressioni avute
prima dell’inizio sono confermate: tanti film in cartellone, forse troppi, e una programmazione
cervellotica che crea ingorghi, ansie, isterie. Sullo schermo, ricchi e poveri si
confrontano in quattro film della selezione ufficiale, intrecciando dinamiche di pubblico
e privato che fanno riflettere. “Un conte de Noël” di Arnaud Desplechin racconta di
una famiglia composita della borghesia francese, popolata da individui bizzarri, compulsivi,
al contempo drammatici e umoristici, come spesso la vita stessa ce li propone. Il
motivo narrativo centrale è l’improvvisa scoperta di una malattia rara della madre,
curabile solo con un trapianto rischioso. Da esso si dipartono tutte le possibili
storie, di amori, amicizie, dissapori che animano il gruppo, riunito per Natale nella
grande casa paterna. Desplechin è un bravo drammaturgo: sa come interessare il pubblico
a vicende personali, come evitare i tempi morti, come mescolare il sorriso alla commozione.
Meno attento alle profondità dell’animo umano, nonostante l’abituale bravura nei tempi
di commedia, risulta invece “Vicky Cristina Barcelona” di Woody Allen. L’avventura
delle sue due giovani protagoniste nel mondo catalano sa molto di dépliant turistico
e di letteratura tascabile. Interpretato da attori di chiara fama, il film contiene
le briciole di quell’umorismo che ha reso famoso il suo autore e si abbandona spesso
agli stereotipi, sia sul piano dei luoghi filmati sia su quello delle tipicità americane
e spagnole. Più dosato nella drammaturgia, più attento ai veri motivi che muovono
l’animo umano, “Linha de passe” di Walter Salles e Daniela Thomas mostra invece i
bisogni frustrati di una madre e dei suoi quattro figli, all’interno di una favela
di San Paolo. Lontano da una caratterizzazione che privilegi l’estetica della miseria,
i due cineasti brasiliani mettono in scena un mosaico di percorsi individuali, ciascuno
perduto dietro a un suo sogno, dal ragazzo che vuole sfondare nel mondo del calcio
a quello che vorrebbe incontrare suo padre, da quello che deve mantenere a sua volta
una famiglia a quello che ha trovato nella fede il coraggio dei propri atti. Il risultato
è un film che rende amari, come tutte le storie di illusioni perdute, ma che lascia,
nonostante tutto, una speranza di tempi migliori. Amaro e commovente è infine forse
il film migliore di questo inizio festival, “24 City” di Jia Zhangke che, mescolando
i canoni del documentario e della finzione, ci trasporta nel mondo dei vinti. “24
City”, che prende il suo titolo su da una poesia cinese, racconta lo smantellamento
del passato: la trasformazione irreversibile di Chengdu da città operaia a capitale
d’affari, la morte di una classe operaia con i suoi miti, le storie di sofferenza
e di speranza degli esseri umani, le generazioni che si succedono, il declino e il
progresso del mondo. Nei volti filmati, nelle parole che pronunciano, negli spazi
ormai deserti, la Cina diventa veramente il paradigma del mondo. (Da Cannes, Luciano
Barisone)