Attentato kamikaze a Kirkuk durante un funerale: oltre 40 morti
In soli tre giorni sono quasi cento le vittime in Iraq. Stamani l’ennesimo attentato
kamikaze nelle vicinanze di Kirkuk, costato la vita ad oltre 40 persone. Il servizio
di Benedetta Capelli:
Non conosce
tregua la violenza in Iraq. L’ultimo atto criminale è avvenuto in mattinata ad un
funerale celebrato a 120 km da Kirkuk: un kamikaze si è fatto saltare in aria provocando
una strage. La polizia ha riferito di oltre 40 vittime. Dieci i morti a Sadr city,
roccaforte del leader radicale sciita Moqtada Al Sadr, per gli scontri tra le forze
della coalizione e l’esercito del Mahdi, responsabile della scomparsa, in cinque mesi,
di 32 persone, ritrovate oggi cadaveri in una fossa comune a circa 90 km a nord-est
di Baghdad. Violenze e macabri ritrovamenti che seguono l’ondata di attentati di due
giorni fa a Ramadi e Baquba nei quali avevano perso la vita quasi 70 persone. Un’escalation
preoccupante per il futuro del Paese stretto nella morsa del terrorismo. Proprio su
quest’ultimo punto ha insisito ieri il premier iracheno Al Maliki, nella sua prima
visita a Bruxelles. Agli eurodeputati ha detto di voler “sconfiggere al Qaeda e i
suoi alleati”, aggiungendo di essere particolarmente fiducioso. Parole che però hanno
lasciato un po’ di perplessità negli interlocutori europei. Oggi, Al Maliki sarà alla
NATO per incontrare il segretario generale, Jaap de Hoop Scheffer. “Cristiani
in Iraq: la Chiesa caldea ieri e oggi”: tema di un incontro ieri a Roma, organizzato
da Pax Christi, presso la sede della comunità di San Paolo. Tra i partecipanti mons.
Philip Najim, procuratore caldeo presso la Santa Sede, che ha messo in risalto le
difficoltà che i cristiani sono costretti a vivere quotidianamente in Iraq. ''Prima
dell'intervento americano del marzo di cinque anni fa - ha raccontato padre Najim
- nessuno osava attaccare le chiese o le moschee, c'era un rispetto reciproco e non
ci si chiedeva a quale religione si appartenesse perché si rispettavano le persone
in quanto tali''. Oggi, ha constatato il procuratore caldeo, è tutto diverso: ''Io
non vedo un Paese liberato dal dittatore - ha detto - ma vedo un Paese fantasma di
se stesso, escluso dalla comunità internazionale, privo di ospedali e scuole e dove
i cristiani non hanno più speranze per un futuro prospero''. Secondo alcune stime,
fino agli anni '90, i cristiani in Iraq erano circa un milione, il 3% dell'intera
popolazione, mentre oggi ne sarebbero rimasti meno di 400 mila, dopo un esodo in massa
provocato dalla guerra e dalle violenze interconfessionali. ''Una diaspora'' l'ha
definita padre Najim che ha aggiunto: ''Oggi siamo addirittura più numerosi fuori
che dentro l'Iraq'', precisando che, oltre all'esodo forzato, questa situazione è
frutto anche dello spirito missionario che compete da sempre alla tradizione caldea.
Infine ha lanciato un appello alla comunità internazionale: ''L'Iraq non ha bisogno
di soldi - ha spiegato - perché siamo un Paese ricco di risorse, non abbiamo bisogno
di un atto umanitario ma umano'', che riconsegni l'Iraq e ''la dignità agli iracheni.
Un antico detto iracheno recita: 'la religione è per Dio ma la Patria è per tutti'
e suggerisce l'immagine di un Paese in cui le varie fedi convivono secondo i principi
condivisi di tolleranza e rispetto. Una realtà lontana da quella che si presenta oggi:
un Iraq, dove le chiese vengono attaccate, i preti rapiti quando non uccisi e dove
i cristiani sono vittime di persecuzioni e intimidazioni. Ed è proprio l'Iraq della
''tolleranza e della pace che esisteva fino al 2003'', che rivorrebbe padre Najim.
Alle parole del procuratore caldeo, ha fatto eco mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo
latino di Baghdad, dopo che ieri non meno di 70 persone hanno perso la vita e più
di 100 sono rimaste ferite in diversi attentati e scontri militari in più parti del
Paese, in quella che è stata una delle tre giornate più cruente dall’inizio dell’anno.
“Siamo scoraggiati e preoccupati” - ha detto mons. Sleiman all’agenzia Misna - “giornate
come quelle di ieri danno il segnale che la guerra è lontana dall’avere una soluzione
e che manca una vera strategia complessiva sia militare sia politica; ma anche la
società è lontana dal risolvere le sue profonde divisioni interne ”. (R.G.)